La riflessione
Spread e sovranità debito-dipendenti
Il Vice Premier Di Maio ha evidenziato che se la Francia - stato sovrano - sta programmando un deficit del 2,8%, l’Italia non ha minori dignità e indipendenza. Tutto vero, in linea di principio, ma cosa differenzia - in termini sostanziali - la situazione dei due paesi?
Il governo sta in queste ore decidendo l’entità del deficit di bilancio da programmare per il 2019. A fronte dell’impegno, da parte del Ministro Tria, di rispettare il vincolo del 1,6% del PIL, il Vice Premier Di Maio ha evidenziato che se la Francia - stato sovrano - sta programmando un deficit del 2,8%, l’Italia non ha minori dignità e indipendenza. Tutto vero, in linea di principio, ma cosa differenzia - in termini sostanziali - la situazione dei due paesi? È stato da più parti immediatamente evidenziata la differenza nell’entità del debito pubblico: meno del 100% del PIL in Francia, superiore al 130% in Italia. Differenza rilevante, certo, ma non tale da giustificare distanze così macroscopiche nei vincoli all’ulteriore indebitamento. La spiegazione va piuttosto ricercata nel sempre più vituperato spread tra i titoli decennali dei due paesi e quelli tedeschi: mentre scriviamo, 31 punti base per la Francia, 231 per l’Italia. I 200 punti di differenza sono l’effetto di un maggior rendimento dei titoli italiani rispetto a quelli francesi: 2,85% contro 0,85% circa. Perché i mercati finanziari sono tanto più generosi con il governo francese rispetto a quello italiano? Come hanno imparato, a caro prezzo, i nostri concittadini che anni fa acquistarono i “convenientissimi” bond argentini, le differenze di rendimento riflettono le aspettative dei creditori rispetto al rischio di default dei debitori: oggi i mercati finanziari ritengono tale rischio estremamente basso per la Germania in primis, e poi per la Francia (insieme ad Austria, Paesi Bassi, ecc.), ancora basso ma comunque significativo per l’Italia. Anche Spagna e Portogallo registrano spread molto inferiori al nostro (rispettivamente 98 e 135 punti base). La situazione, in prospettiva, potrebbe peggiorare, indipendentemente dal maggiore o minore apprezzamento che i mercati finanziari esprimeranno sulla nostra manovra economica: si sta progressivamente esaurendo, infatti, il benefico effetto del quantitative easing della BCE, che finora ha fatto massicci acquisti di nostri titoli di stato. Mediamente, la nostra spesa annua per interessi, a seguito di tali acquisti, è calata da 80 a 70 miliardi circa. A parità di altre condizioni dovremmo quindi aspettarci un incremento di spesa, nel 2019, di circa 10 miliardi. Ma le cose potrebbero andare molto peggio: nel 2019 andranno in scadenza (e dovranno quindi essere rinnovate) obbligazioni per circa 270 miliardi: ad ogni 100 punti di spread in più corrisponde, in prima approssimazione, una maggiore spesa annua di circa 2,7 miliardi, destinata a cumularsi progressivamente per i titoli pluriennali. E’ questo il motivo per cui il Ministro Tria insiste tenacemente sul rispetto del limite del 1,6%: “innervosire” i mercati (come avvenne drammaticamente nel 2011, governo Berlusconi, con lo spread che superò i 500 punti), significa mettere a grave rischio la sostenibilità dei bilanci pubblici, costringendoci a destinare al servizio del debito buona parte delle “risorse aggiuntive” chieste per altri, spesso nobilissimi, scopi (supporto alla povertà, diminuzione della pressione fiscale, ecc.). La nostra sovranità, ci piaccia o no, si riduce tutte le volte in cui dobbiamo continuare ad emettere titoli di stato per rimborsare quelli in scadenza: maggiore il debito, minore la forza contrattuale del debitore.