L'analisi

Al centro c'e spazio ma non c'è leader

Giuseppe De Tomaso

«Lega e M5S devono tutto ai leader che li hanno portati al governo del Paese. Ma le leadership non sono prestabilite, né sono eterne»

I leader in politica sono tutto. Lo ha insegnato e dimostrato un fuoriclasse della politologia come Max Weber (1864-1920). Per lo studioso tedesco il leader politico deve esercitare un potere carismatico e possedere qualità personali ritenute straordinarie dai suoi seguaci. Il carisma del leader, sostiene Weber, deve basarsi sulla demagogia, che non va intesa in senso dispregiativo, ma come capacità di ottenere consenso con la parola, con i discorsi pubblici e con i gesti. Se poi questo signore, provvisto di doti così preclare, aggiungesse al suo arco di frecce l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità, ci troveremmo di fronte, weberianamente parlando, a un leader-leader, a un vero domatore di popoli e di partiti.

Se la personalizzazione delle élite destinate alla leadership era già un dato acquisito all’epoca di Weber (segnata dall’avvento della democrazia di massa), oggi è addirittura un dato imprescindibile della contesa politica. Nessuna sigla e nessuna idea possono fare un metro di strada senza la guida di un leader in grado di trascinare il proprio elettorato e di fare colpo sull’intera opinione pubblica. Negli ultimi decenni, la personalizzazione della politica è diventata così imperiosa e travolgente che un luminare nella scienza del potere come Giovanni Sartori (1924-2017) ha di fatto archiviato il termine democrazia sostituendolo con il neologismo videocrazia.
Parafrasando la celebre espressione di Marshall McLuhan (1911-1980) «Il medium è il messaggio» (in sintesi: gli strumenti del comunicare non sono neutrali, ognuno produce un’influenza specifica sui destinatari del messaggio, al di là del contenuto veicolato), si potrebbe dire, oggi più di ieri, che il leader è il messaggio, anche al di là del contenuto che diffonde e del programma che egli illustra agli elettori.
Esisterebbe oggi la Lega senza Matteo Salvini? Sarebbe nato il Movimento Cinque Stelle senza Beppe Grillo? Anche un bambino a digiuno di questi temi risponderebbe di no. Lega e M5S devono tutto ai leader che li hanno portati al governo del Paese.
Ma le leadership non sono prestabilite, né sono eterne, come prova la Storia dell’umanità, fatta di corsi e ricorsi, di ascese e discese, di rivoluzioni e restaurazioni. Le virtù carismatiche sono essenziali nel fare da apriscatole a una società chiusa in un pacco impolverato. Ma, a volte, queste virtù non bastano. Vanno inserite in un contesto favorevole. Insomma, l’offerta (il leader carismatico) può risultare insufficiente senza una parallela domanda sufficiente (cioè uno spazio che richiede di essere coperto).
Andiamo al sodo. Oggi Matteo Salvini e Luigi Di Maio occupano tutta la scena istituzional-mediatica. Ma non presidiano tutta la scena politico-programmatica. In particolare non occupano quel settore dell’agorà politica che per lungo tempo è appartenuto a una formazione moderata come la Democrazia cristiana, circondata da cespugli poco spinosi. Era, la Dc, una formazione europeista e interclassista, la cui cultura discendeva dalla dottrina sociale della Chiesa. Era, la Dc, un partito che trovava nella legge elettorale proporzionale la sua cornice ideale, perché, grazie alla possibilità di scegliere le alleanze, lei poteva assicurare a se stessa e al Paese fasi politiche assai più longeve delle coalizioni al governo. Era la Dc un partito di cattolici, non dei cattolici, col paradosso che il suo leader, Alcide De Gasperi (1881-1954), poteva concorrere, in alcuni frangenti, al titolo di capopartito più laico in circolazione.
Insomma. Mai come adesso ci sarebbero, anzi ci sono, le condizioni ideali, non per la rinascita della Dc (nessun cadavere può essere resuscitato), ma per il battesimo di una creatura che le somigli molto, e che dia ospitalità e ricovero a quanti non si ritengano soddisfatti, e rappresentati, dall’attuale campionario di insegne e capi politici. Sì, ci sono altre dimore oltre alla Lega e al M5S. Ma appaiono in disarmo anche ai loro diretti proprietari, che non a caso sono alle prese con incisivi progetti di ristrutturazione, ben al di là della semplice tinteggiatura esterna.
Ecco. Almeno in teoria, le premesse ci sarebbero tutte perché possa sbocciare un fiore centrista come fu il giglio democristiano. Ma perché, a dispetto delle circostanze favorevoli, questo fiore europeista ed antipopulista non sboccia? Semplice: gli manca un leader, anzi il leader. Manca qualcuno che sappia fare il De Gasperi, lo statista trentino che dopo la Seconda Guerra mondiale seppe dare al Paese una prospettiva e una linea. Non era, propriamente, De Gasperi, l’idealtipo di Max Weber, visto che era lontano anni luce dal cliché del politico demagogo sia pure nella versione razionale del pensatore teutonico. Per capirci, De Gasperi era migliore del vir politicus descritto e auspicato da Weber.
Ora. La reincarnazione degasperiana sarebbe un’aspirazione da fantapolitica, o da fantascienza. Ma, prima o poi, anche in politica i vuoti si riempiono. Il cercasi un mini-degasperi potrebbe, a sorpresa, sfociare in uno sbocco positivo. A meno che la (sovra)struttura demagogica degli attuali strumenti della comunicazione risultasse inattaccabile pure da un novello Ercole consigliato da Ulisse.

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