La rete
La questione del copyright e il lato oscuro della Rete
La linea sottile tra libertà, diritti e responsabilità quando parliamo del digitale
È sottile il confine tra libertà, diritti e responsabilità. Diventa impalpabile quando parliamo di rete, di web, insomma di mondo digitale nel quale all’immaterialità dello strumento corrisponde una maggiore difficoltà di tracciare regole che contemperino interessi contrapposti.
Ieri Wikipedia è stata oscurata dai suoi gestori (e lo sarà fino a domani). Un’eclatante protesta nei confronti della modifica alla direttiva in materia di copyright (Digital Single Market) che il Parlamento europeo è chiamata ad approvare domani e che – per i suoi detrattori – potrebbe limitare gravemente la libertà di espressione su Internet. In gioco, si afferma, la possibilità che articoli pubblicati sui giornali siano condivisi sui social network o reperiti grazie ai motori di ricerca.
La questione è particolarmente complessa – sotto il profilo giuridico ed economico – e andrebbe pertanto analizzata con la dovuta attenzione, calandola senza pregiudizi nel quadro delle motivazioni che sorreggono il diritto d’autore e delle sue peculiarità nella società 2.0. Un diritto che – come tutti sanno – mira semplicemente a tutelare la proprietà intellettuale, cioè a dire chi produce opere d’ingegno e ne trae un utile. Vive grazie a loro, insomma. Non già a sopprimere o a limitare libertà fondamentali.
Essenziale, quindi, sarebbe, accantonare per una volta editti e proclami (naturalmente lanciati a colpi di tweet) indignati (e scontati) che agitano vessilli a dire il vero un po’ consunti e portatori di un inevitabile spleen. «Libertà» e «bavaglio» (talora in combinato disposto) solo le parole più usate – e abusate – del terzo millennio. D’altronde era prevedibile che la vicenda suscitasse gli strali di chi, grazie alla rete, ha costruito la propria fede e fortuna politica, passando da exploit virtuali a fulminee carriere reali. Sempre in nome del dio web, e della regola «uno vale uno» (da qualcuno definita «una balla spaziale»).
Ed ecco allora piovere le dichiarazioni «di lotta e di governo»: «Un bavaglio alla rete. È inaccettabile. E come governo ci opporremmo» (Luigi Di Maio, vice presidente del Consiglio); «un vero e proprio bavaglio alla libertà della rete» (Vito Crimi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria). E già, perché chi crea, in fondo, è un guitto. Scrittore, giornalista, poeta, musicista, attore, regista, sceneggiatore, pittore o scultore che sia, un creativo è nient’altro che un funambolo, un clown, un giullare (meglio se di corte). Pensi piuttosto a lavorare «veramente», e faccia pure l’artista nel tempo libero. Un singolare caso di rimozione freudiana per i capi di un movimento – non chiamatelo partito – il cui padre fondatore è innanzitutto un comico (e neanche di corte).
Chi è non più giovanissimo ricorderà il mantra della «musica gratis» in voga negli anni Settanta del secolo scorso. E sì, perché all’epoca, intonando il peana dell’«autoriduzione», rivoluzionari veri o presunti chiedevano agli artisti di esibirsi gratuitamente o comunque di ridurre drasticamente i propri compensi devolvendoli per il resto alle lotte dei «lavoratori». Altrimenti non si era bravi «compagni». Ne sa qualcosa Francesco De Gregori, ripetutamente contestato – anche a Bari – fino al «processo politico» al Palalido di Milano del 1976, quando venne insultato e minacciato al grido di «La rivoluzione non si fa con la musica» e «vai a fare l’operaio e suona la sera a casa tua». Le menti più raffinate del tempo elaborarono persino uno straordinario diktat: «Distruggeremo la musica, è solo un prodotto borghese». I nemici dichiarati infatti erano i «padroni della musica»: gli organizzatori come David Zard, colpevole di essere ebreo, che ebbe l’ardire di portare in Italia Lou Reed nel 1975. Ed anche gli artisti, da Carlos Santana – il cui concerto milanese venne «omaggiato» dal lancio di una molotov sul palco – ad Edoardo Bennato, artista scomodo e controcorrente oggi ferocemente attaccato dai khomeinisti del web di ultima generazione che lo accusano di «lesa maestà» per aver scritto una canzone intitolata «Al diavolo il grillo parlante».
Siamo distanti anni luce da quell’età?
Probabilmente sì, erano i cosiddetti «anni di piombo», si sparava per strada, tutto era fortemente ideologizzato, non c’era internet. Eppure, la partita sul diritto d’autore che si sta giocando in queste ore in Europa rischia di essere più rivoluzionaria di tante rivoluzioni «annunciate» (e «mancate») del Novecento. Una rivoluzione silenziosa, certo, ma che può far venire alla luce il lato oscuro della rete, facendone emergere – senza ambiguità e ipocrisie – le contraddizioni e gli ingenti interessi economici che vi viaggiano, con rendite di posizione e privilegi inimmaginabili che l’assenza di regole o la loro incertezza rendono legittimi. O, viceversa, sancirne la definitiva presa di potere, il predominio assoluto sulle nostre vite e sulle individualità di ciascuno, ammantati da alcuni dogmi inattaccabili: «la rete è libera», «la rete è democratica», «la rete siamo noi», ma anche «uno vale uno» o magari «tutti in rete sono uguali». Dimenticando, invece, che anche nel web – come ovunque nella vita – «alcuni sono più uguali degli altri». Anche senza bavagli e altre amenità del genere.