Il Meridione prima vittima del debito pubblico
Meno male che c’è Mario Draghi. Il presidente della Bce (Banca centrale europea) ogni giorno fa la parte della suocera ricordando all’Italia, nuora spendacciona, che con i debiti non si può programmare neppure una gita fuori porta. Meno male che c’è Giovanni Tria. Il neoministro dell’Economia fa la parte dello zio avveduto, quello che ammonisce i nipoti troppo ambiziosi sui pericoli dei passi più lunghi della gamba: a furia di saltare, ammonisce, si rischia il capitombolo.
La questione del debito riguarda innanzitutto il Mezzogiorno. È fuori discussione che il Sud sconti un indecente deficit infrastrutturale e che lo Stato debba provvedere al più presto ad appianare il dislivello. Ma se il debito pubblico continua a salire, o non scende significativamente, qualsiasi politica nazionale compensativa o perequativa a beneficio del Meridione è destinata a restare una promessa vacua e beffarda. Lettera morta. Non ci sono i soldi. Dovete aspettare. Punto.
Invece, si continua a giocare sul debito pubblico con la beata incoscienza di un neonato al contatto col biberon. Si mettono in agenda progetti di spesa (e di spreco) il cui risultato immediato è l’ulteriore crescita dei conti in rosso.
Il ministro Tria ha fiutato l’aria che tira e da persona giudiziosa e responsabile sta reagendo alla maniera di alcuni vecchi leader democristiani di fronte a richieste particolarmente assillanti: Mo’ vediamo. Traduzione: per ora non possiamo permettercelo, nel prossimo futuro si vedrà. Intanto quelli guadagnavano tempo. Il che, quando non si può fare altro, è già qualcosa. Eppure non è necessario aver studiato a Harvard per dedurre che l’alto debito pubblico è, oggi, il principale nemico della causa, ossia del riscatto meridionale.
Certo, coglie nel segno l’economista siciliano Pietro Massimo Busetta, il cui libro Il coccodrillo si è affogato è stato presentato pochi giorni addietro a Bari, quando indica nei casi storici più eclatanti dell’esclusione del Sud dalla partita infrastrutturale (la prima autostrada venne concepita solo da Milano a Napoli, l’alta velocità ferroviaria venne prevista solo fino a Salerno) la volontà del potere centrale di assecondare solo le esigenze dell’Alta Italia. Ma, oggi, chiunque, in materia di grandi opere, voglia pretendere un programma risarcitorio a vantaggio del Sud si sentirebbe ripetere come un disco rotto: «Cari signori, qui non c’è un euro, ripassate, se vi va bene, la prossima volta».
A dire il vero qualche euro, di provenienza europea, ci sarebbe per il Mezzogiorno. Ma questi spiccioli patiscono una triplice maledizione. Una: sono quattrini che vanno a sostituire (non a irrobustire) le risorse nazionali per la Bassa Italia. Due: l’utilizzo dei fondi comunitari è più lento di un Tir in tangenziale. Tre: la qualità della spesa di questi benedetti soldi è, a volte, più avvilente di un autogol al novantesimo minuto. Denari buttati qua e là per accontentare famiglie e famigli sempre più insaziabili, per alimentare la mangiatoia elettorale. Oddio, non è tutto così disastroso. Con i finanziamenti europei si sono realizzate ottime iniziative infrastrutturali. Poca cosa, però, rispetto alle aspettative e alle reali necessità da parte del Sud.
Nel frattempo il Meridione si spopola a vista d’occhio. La Svimez rammenta che ogni anno centomila giovani partono senza il biglietto di ritorno e che il salassso (20 miliardi di euro) di tale esodo corrisponde, alla lettera, alla somma (20 miliardi di euro) che arriva dall’Europa. Insomma, più immobili di così.
Una soluzione ci sarebbe per attrarre investimenti: rivolgersi agli investitori esteri, sedurli con incentivi fiscali e riduzioni dei costi, visto che il ristoro infrastrutturale è improponibile per colpa del debito pubblico. Ma a scoraggiare gli spiriti più ardimentosi provvede l’incertezza del diritto, accompagnata da una burocrazia a volte più sadica di una torturatrice cinese. Il professor Busetta suggerisce un’agenzia per l’attrazione di investimenti esteri, in modo da semplificare le procedure e accorciare i tempi. Ma quasi tutte le agenzie in Italia hanno il futuro garantito, quello di onerosi carrozzoni.
Si può tentare la carta delle Zes (Zone economiche speciali), ma non è un’operazione automatica: sia perché non basta ridurre il carico fiscale se il territorio circostante non è relativamente attrattivo; sia perché il sistema politico-burocratico vuole avere sempre l’ultima parola su tempi e modi delle agevolazioni contemplate.
Nel frattempo restano sul tavolo le alternative che puntano a sussidiare, non a incentivare. Il reddito di cittadinanza è una di queste. Intendiamoci. Il reddito minimo non è un’eresia, visto che lo contemplavano gli stessi mostri sacri del liberismo. Ma il reddito di garanzia non può essere una linea economica sia se si antepone l’obiettivo della crescita sia se si privilegia la pratica delle redistribuzione e della solidarietà.
In Italia, a partire dal Mezzogiorno, serve più innovazione, più «innovazione endogena«, per citare il Premio Nobel per l’economia Edmund Phelps. Ma il Sistema non mostra grande voglia di innovare, di mettersi in gioco. Gli istinti corporativistici sono duri a morire, anzi non sono mai stati così diffusi. Anche perché ancora il debito pubblico contribuisce a fiaccare gli spiriti e a dimenticare vieppiù l’area del Paese che più avrebbe da gioire grazie a una maggiore «innovazione endogena».
Il ministro Tria ha davanti a sé una spirale di impegni: frenare la spesa per frenare il debito per ridare gas al Sud. Non sarà una sfida facile. Un ministro tecnico sa che i benefìci del rigore si misurano a medio termine. I leader politici sanno che i dividendi di una politica economica vanno incassati sùbito, in cabina elettorale. Di conseguenza governanti politici e governanti tecnici sono destinati a collidere, innanzitutto sui tempi di una strategia economica.
Finale. la chiave di volta rimane il debito pubblico. Che, dati alla mano, non ha fermato solo il Meridione, ma ha fermato e sta fermando l’intera italia.
Giuseppe De Tomaso
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