Attraverso i social un'Italia del rancore

MICHELE MIRABELLA

Gli insulti verso il presidente Napolitano di graffitari del web che non si accontentano di imbrattare i muri con la scempiaggine di grafemi senza senso e gigantografie espressive di un assoluto vuoto mentale

Perplesso per le constatazioni di fatti recenti e intimorito per l’imminenza di fatti probabili, ho deciso, stamattina, ieri per chi legge, di veleggiare nella oceanica comunità che cinguetta, nei marosi dei Tweet.
E ho scritto «Dovremmo studiare un modo per lasciare un tweet “sospeso”, come fanno a Napoli per il caffè. Così, se uno non ha un’idea buona e originale per augurare il buongiorno al prossimo, può usare il “tweet sospeso” condividendo con gli altri speranza e amore. Pare che oggi servirebbe».

Dei social network sono utente prudente e diffido. Ma mi incuriosisce la comunità che si genera in forza della pulviscolare loquacità degli utenti viaggiatori della comunità generata dai media alla portata di tutti. E il prezzo che socialmente si paga per questo uso generalizzato è l’abuso. 
Ve n’è di persone non proprio in grado di usare i nuovi mezzi di comunicazione a maggior gloria e gioia dell’umanità che devastano il web con un baccano di stupidaggini, volgarità, atti criminosi. E asseverano sciocchezze senza senso e prive anche di qualche innocente attenuante in campi che dovrebbero essere riservati a esperti e competenti.

Il più recente caso che ha avvilito la comunità civile è quello degli insulti rivolti attraverso la Rete al presidente Napolitano, seriamente infermo. Mi sono rifiutato di leggerli e ho registrato semplicemente il desolato scalpore e la rassegnazione dei buoni cittadini di fronte a questo ennesimo crimine vigliacco di graffitari del web che non si accontentano di imbrattare i muri con la scempiaggine di grafemi senza senso e gigantografie espressive di un assoluto vuoto mentale. Adesso hanno la Rete!
Un tempo il mozzicone di carboncino o il gessetto verbalizzavano anche valori politici orfani di protezioni e mecenati, e intimavano ora i dati dell’ira popolare, ora il gradimento per le fattezze di una donna oppure le prodezze di una squadra e la nostalgia per Rosetta e il suo décolleté. Gli interlocutori erano rari e distratti, la gendarmeria recalcitrante ad occuparsi di queste ragazzate, delegava all’imbianchino le blande manovre censorie. Ricordo di un tale che scrisse una giaculatoria encomiastica per il prezioso gioiello di una bella figliola del rione, troppo in alto su di un monumento alla patria. Fu considerato, dalle sornione autorità, tutto sommato, un complemento patriottico e lasciato lì a illividire nell’alternarsi delle stagioni. La titolare del gioiello indiscreto sarà nonna, ormai. Anche la Patria. Anche l’Italia.

Nonna e triste, sola, immalinconita dal rancore. Ecco, dal rancore che si inacidisce nei nuovi media. Altro che moncone di carboncino, altro che «viva la gnocca». Oggi si sente l’odio. E l’odio si legge, si ascolta, si trasmette, si posta, si twitta, si invia, si tagga, si copia. Via mail, via msg, via whatsApp, sul carrozzone terribile di Facebook. Rancore. Inconsulto rancore. Non e antagonismo, non è rivolta politica, non reclama palingenesi sociali, non scrive proclami rivoluzionari. E non è ribellione che progetta, mentre si articola nel furore popolare, innovamenti o alternative sociali. Il rancore è fine a se stesso: movimento tellurico che si afferma, ma non si assesta in un nuovo ordine che fomenta la pace, no. Esprime solo se stesso e fa solo godere chi lo prova della subitanea voluttà di aver danneggiato il prossimo. Quello che si conosce e avversa, ma, anche, quello che non si conosce e si considera mucchio. Ma la libidine assurda si prova nella contestazione rabbiosa verso l’autorità a qualsiasi titolo connotata. Penso a quegli idioti e vigliacchi studenti (si fa per dire) che insultano, picchiano, tormentano maestri e professori. Penso ai genitori che si precipitano a spalleggiarli per ribadire la connotazione della famiglia belluina, unico ripostiglio, non di valori, ma di rancori autoreferenziali contro tutto e tutti, soprattutto se tutti sono gli altri, quegli altri che nell’ordine sociale hanno un ruolo nella gerarchia irrinunciabile delle competenze.

A Macerata un’associazione di cui non voglio sapere neanche il nome ha organizzato, per festeggiare con i bambini il 25 Aprile, una tornata di tiro a segno con mazze e bastoni ai danni di un pupazzo tirato su per i piedi che rappresentava Mussolini appeso a Piazzale Loreto con la sua donna. Premio al fortunato mazziere capace di rompere quella testa di terracotta, un pacco di caramelle. Bel modo di insegnare i valori della Repubblica Italiana e della Costituzione. Perfino i capi della Resistenza rabbrividirono di disgusto per quell’orribile spettacolo che Pertini chiamò «macelleria messicana». Dimenticò, poi di chiedere scusa ai Messicani. Oggi si replica in effige nella bella e civile città di Macerata. È rancore!

La nonna Italia stremata, l’osserva che monta e tutti fanno finta di non ravvisare nel ritardo della individuazione di un governo italiano e se la prendono con la litigiosità dei politici. Ma non si accorgono che la vera ragione è l’odierno rancore che oggi raccoglie i frutti del rancore vecchio di un decennio, causato dalla cancellazione e delle ideologie dalla storia del presente italiano e dalla demolizione dei valori culturali che le ideologie esprimevano prima di diventare prassi politica.
Vedere lo spettacolo dei due capi delle Coree che si incontrano, si parlano, recitano con un apparato simbolico di entusiasmo quasi infantile la scena per decenni attesa di una concordia ritrovata, della fine del «rancore», mette una certa dolcezza al cuore. Questo è, forse, il caffè sospeso che l’umanità aveva lasciato lì per sessantadue anni. Finalmente qualcuno lo ha trovato. Prendiamo esempio. Provino gli Italiani a mettere in atto la civile trovata dei napoletani: al Bar, beviamo il nostro caffè e, al momento del conto, ne paghiamo un altro per qualcuno che non potrà pagarlo. Non sappiamo chi sarà, ma siamo felici lo stesso. Al prossimo, abbiamo pagato un caffè al prossimo. Senza rancore, anzi, come il mio cinguettio. Con amicizia.

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