Archeologia
Egnazia, saccheggi e meraviglia. La storia di Cibele, madre degli Dei
Soltanto nei primi decenni del'900 questo sito fu «scoperto» e valorizzato ma già nel XII secolo Guidone se ne era interessato
Nel corso del XII secolo Guidone, studioso di geografia, ricorda Egnazia come ‘oppidum’, cittadella fortificata tra i boschi. Probabilmente a quel tempo era ancora in piedi la fortificazione, il ‘castrum’ che nel VI secolo d. C. viene costruito dai bizantini riutilizzando i grandi blocchi delle antiche mura e gli spazi del santuario che sorgeva, al centro della cosiddetta acropoli, dal tempo dell’imperatore Augusto.
La terra aveva già ricoperto e nascosto, quindi, quel che restava della città antica, almeno fino alla metà del 500, quando l’umanista e filosofo Leandro Alberti intravvede ‘i vestigi dell’antica città di Egnazia tra cespugli, urtiche e pruni’ e più tardi, alla fine del 700, quando i viaggiatori la ricordano come ‘un ammasso confuso di pietre’. Ma la terra custode non era riuscita a fermare la violenza quando, nel corso dell’Ottocento, ignobili cercatori di antichi tesori, saccheggiavano le necropoli alla ricerca delle ceramiche dipinte e degli ori che accompagnarono i defunti verso l’aldilà. Non c’è scampo neppure per gli affreschi che decoravano le pareti delle tombe. Tanto che che l’immagine dipinta del cavaliere messapico che imbriglia il cavallo, armato di corazza, di spada e di scudo mentre sta partendo per la guerra contro i condottieri chiamati da Taranto, strappata dalle pareti di una tomba sotterranea, fu venduto a ricettatori che poi lo destinarono, dietro lauta ricompensa, a Napoli, al museo del Borbone. Sottratti alle tombe, che la terra pietosamente proteggeva, finirono nelle mani dei collezionisti con l’hobby dell’antico e degli emissari dei maggiori musei d’Europa, che in quel tempo si andavano formando, oggetti di prestigio e i servizi da tavola di ceramica con le figure del mito e di ceramica nera con pampini e grappoli d’uva sovraddipinti di bianco e di giallo, il cui stile prese il nome di Gnathia.
Soltanto nei primi decenni del Novecento alcuni pionieri dell’archeologia si accostarono allo spazio dell’antico sito, per interrogarlo con modi appropriati e scoprire le forme del paesaggio urbano. Proprio sull’acropoli, i lembi più prossimi al mare, raccontano che lì, nel II millennio prima di Cristo, in quella che viene chiamata l’Età del Bronzo, era sorto un villaggio sul mare protetto da un muro di terra impastato con pietre, dove le capanne restituiscono tracce di focolari per la cottura dei cibi, macine e pestelli per sfarinare i cereali e grandi orci per conservare l’acqua e le provviste. Dove gli uomini si nutrivano di leguminose, di pesce, di carne di maiale, di cinghiale e di cervo, preda di caccia, questi ultimi, nella vicina selva, mentre le donne si dedicavano alla tessitura come ci dicono le fuseruole sparse un po’ ovunque e alla tintura delle lane testimoniata dalle valve di conchiglia.
La fascia di terra protesa sul mare accolse i navigatori micenei in viaggio dall’Egeo verso le nostre coste che portavano con sé per diffonderli sul mercato ceramiche di pregio, ornamenti in pasta di vetro e avorio e che insegnarono agli indigeni l’uso del tornio, la fusione dei metalli e la lavorazione dell’osso. Gli scambi con il mondo greco continuarono anche nell’abitato japigio dove il vasellame indigeno risente della cultura peucezia, cioè della Puglia centrale, e di quella messapica, della parte meridionale della regione, essendo Egnazia città di confine. Una cultura che successivamente diviene del tutto messapica. I gruppi emergenti si stabiliscono allora sull’acropoli, dove si celebra anche il culto, mentre le case con le officine e i sepolcri, si spostano a sud. Sappiamo che le famiglie al potere continuano a praticare l’agricoltura e l’allevamento e con il surplus finanziano la guerra, mentre la vita quotidiana maschile scorre tra il simposio e la pratica atletica. Sono le tombe scavate nella terra a parlarci di loro attraverso la decorazione delle pareti, i corredi e i riti funebri come quello della libagione prima della sepoltura. Molte le allusioni all’aldilà come le melegrane di terracotta, simbolo della terra e della rinascita dopo la morte o i servizi per la tavola che assicurino il consumo di cibo nell’oltretomba con i vasi per il vino e la trozzella, con le rotelle sui manici, per l’acqua, deposti accanto al letto funebre insieme agli oggetti per la cosmesi e per l’ornamento delle donne. Tra il IV e III secolo a. C., la guerra insidia la città che si circonda di mura per difendersi dall’assalto dei condottieri al soldo di Taranto, come Alessandro il Molosso, il cugino di Alessandro il Macedone. Un tratto di quelle mura, costruite con i grandi blocchi estratti dalle cave murgiane, spencola ancora sul mare, estrema memoria del baluardo di un antico conflitto.
La città, nel II secolo a. C. viene disegnata dai Romani che tracciano l’impianto stradale raccordandolo alla grande strada sterrata che entrava in città, la via Minucia, dal nome di un console romano. Alternativa all’Appia per chi da Roma volesse imbarcarsi a Brindisi, assicurava un giorno di viaggio in meno rispetto alla regina delle strade. Su questa via passò Orazio durante il viaggio che lo portava a Brindisi al seguito di Ottaviano, come ci ricorda nella quinta del I libro delle Satire, quando attraversa anche Egnazia, che definisce costruita sulle sponde dell’Adriatico tempestoso. Si costruisce quindi la forma urbana con le case e i primi monumenti pubblici, che al tempo di Augusto, assumono rilevanti forme architettoniche sul modello del centro del potere. La basilica, la piazza del mercato, le terme, il criptoportico, il tempio sull’acropoli, che diviene un grande santuario dedicato a Venere, raccontano vicende di vita quotidiana e di mercati. O storie di amore e di morte come quella che ha per protagonisti Cibele, la grande madre degli dei e Attis il giovane da lei amato. A Egnazia uno spazio sacro lo venerava insieme alla sua dea con un simulacro, il cui volto bellissimo, scolpito nel marmo greco da un maestro dell’Asia Minore la terra ci ha riconsegnato.
La città, che al tempo di Augusto si rinnova, potenzia per ragioni militari anche le strutture del porto che, insieme alle vie di terra, contribuisce alla felice condizione economica di Egnazia. Con l’imperatore Traiano poi, la strada principale, che prende il suo nome, recupera l’antico tracciato della via Minucia e lo ristruttura con basoli di calcare. La via porta direttamente nella piazza del mercato, dove avvengono gli scambi con ogni luogo del Mediterraneo, che viene circondata da eleganti portici.
Nella seconda metà del IV secolo. attraverso lo scavo sistematico condotto dall’Università degli Studi di Bari Aldo Moro di Bari, si è appreso ciò che nessuno scrittore antico aveva descritto. Forse, in seguito al violento terremoto che colpì il bacino del Mediterraneo nel 365 d. C., Egnazia subì danni e distruzioni. Sicché il paesaggio urbano da quel momento viene profondamente modificato, assumendo un nuovo modello di pianificazione. La riforma amministrativa dell’impero promossa da Costantino e il ruolo della diocesi, insieme religioso e istituzionale, assecondano questo cambiamento. Si moltiplicano gli impianti artigianali e commerciali con la promozione e l’incremento delle attività economiche e dei traffici. L’edilizia ha un forte impulso, quella religiosa soprattutto con la costruzione di numerosi edifici di culto, tra cui la basilica episcopale con il battistero. Numerosi cantieri rifunzionalizzano molti settori del centro urbano. Ad alimentare il proliferare delle costruzioni sono le manifatture che utilizzano anche gli spazi delle terme e il recinto del santuario sull’acropoli, fulcro della religiosità pagana che scompare. Enormi forni per la produzione della calce bruciano le lastre decorate dei templi, insieme alle colonne, alle sculture e alle iscrizioni. La calce distrugge gran parte delle testimonianze della cultura e della vita della città ma serve, insieme ad altri prodotti che gli artigiani preparano mescolando conchiglie e terracotta, a costruire e a restaurare. I commerci con le provincie del Nord Africa e dell’Egeo orientale si intensificano. L’olio dell’Africa settentrionale, essenziale per il rifornimento civile e militare dell’Impero, viaggia nelle anfore, strumento essenziale per la ricostruzione delle rotte di scambio di beni di largo consumo, specialmente di derrate alimentari, vino , olio, salsa di pesce, frutta, legumi, miele. E insieme alle anfore si diffondono altre merci, servizi di piatti di pregio in ceramica verniciata di colore rosso per le mense dei ricchi, ceramica da fuoco e lucerne spesso con il decoro di simboli cristiani. Che gli artigiani del luogo imitano nelle loro botteghe per soddisfare la richiesta della comunità cittadina e del territorio circostante.
Dopo la fondazione di Costantinopoli e fino al VII secolo il mercato si sposta verso Oriente ed è gestito anche dal vescovo/imprenditore che organizza fiere periodiche, come ci informa la grande quantità di moneta spicciola sparsa sul terreno della piazza mercato ormai ridimensionata, privata delle lastre di pavimentazione e trasformata in tanti piccoli ripari che utilizzano per i muri delle pareti i resti delle colonne e i frammenti delle architetture dell’antico portico. Gli edifici pubblici e le case crollate continuano intanto a darci notizie di incontri, di scontri, del passaggio di uomini, delle semplici abitudini di vita degli abitanti. Il porto e la strada rappresentano ancora la fortuna di Egnazia. Vi giungono infatti genti e pellegrini in viaggio verso la Terrasanta o di ritorno dalla visita ai luoghi santi, come il pellegrino di Bordeaux. Una casa crollata, ai margini della via Traiana ormai dissestata, ha conservato tra le macerie un anello d’oro lavorato a filigrana, di elegante fattura e di grande forza simbolica. Il castone riproduce infatti il tempietto che fu posto sul sepolcro di Cristo a Gerusalemme. È il ricordo prezioso di un devoto che passa per la città dopo lo sbarco a Brindisi o di un ricco residente che, di ritorno dalla Palestina, lo conserva gelosamente nella sua casa fino alla fine? Le pareti che lo hanno custodito tanto a lungo ci lasciano senza risposta. Ma ci confermano che Egnazia alla fine del VI secolo, quando l’anello fu forgiato da abili maestri merovingi, come ci indica lo stile, ha ancora un ruolo centrale nelle direttrici di comunicazione tra Oriente e Occidente. Un legame tra due civiltà, consolidato e proficuo, che questo simbolo di profonda religiosità vuole rimarcare ancora oggi, quando ci viene restituito in un mondo lacerato e confuso, a memoria di un evento lontano che più di 2000 anni fa ha cercato di trasformare il mondo.