L'intervista

Gio Evan in tour tra musica e poesia: «Il mondo nasce dall'affinità. Ho un pubblico di "timidi", e io sono l'aprifila»

Bianca Chiriatti

Il poeta-cantautore a dicembre al TeatroTeam di Bari: «Ho una community che non mi chiede le foto, mi dicono "Ho fatto questo esercizio indiano". Mi piacerebbe ritrovare la "magia del vicinato"»

Musica non per intrattenere, ma per riflettere sulle connessioni tra esseri umani. Dopo aver attraversato mezzo pianeta in bicicletta, scritto romanzi, riempito teatri e dato vita a un festival tutto suo, il poeta-cantautore Gio Evan, nato a Molfetta, è tornato con l'ultimo disco, «L’eleganza del mango», un viaggio sonoro e spirituale che intreccia poesia e canzone, accompagnato dalla voce narrante della speaker Alessia Marty. Un’opera che trova il suo naturale completamento nel nuovo spettacolo teatrale «L’affine del mondo»: il lungo tour, in partenza il 28 ottobre da Crema, farà tappa il 10 dicembre al TeatroTeam di Bari, tra filosofia, fisica quantistica, comicità e musica.

Giovanni, questo disco si alterna tra poesia e canzone in un flusso unico. Se dovesse trovare un «filo rosso», quale sarebbe?

«Il collante è il pensiero: tutto ciò che poi trasformo, a cui do un corpo, un fisico, una parola, è saldato da un pensiero. A volte è incoerente, ma sa come vuole essere detto o pronunciato: io semplicemente mi limito ad assecondarlo. Mi sento più un artigiano in ascolto che un autore di cose».

L’immagine del mango è molto concreta. Perché attingere dal mondo vegetale?

«Il primo pensiero è stato che il genere umano mi ha un po' deluso. Quando l’uomo non si comporta con umanità, non mi interessa più. Allora ho spostato lo sguardo: per me è naturale considerare lo spazio vegetale o minerale come dotato di anima, entità che ti insegna e con cui puoi comunicare. Il mango l’ho visto come un guru, un maestro: ho iniziato a percepirlo come portatore di valori che oggi l’uomo cerca ma non riesce più ad attuare, l’altruismo, la forza del sacrificio».

Ora porterà tutto questo in scena, e anche lo spettacolo “L’affine del mondo”, ha un titolo interessante, con un gioco di parole...

«La coincidenza della parola mi piaceva, perché volevo parlare di come si possa iniziare tutto da capo. Serve un archetipo: creare un mondo, che si costruisce quando un individuo ne incontra un altro e nasce un “due”. Ma il “due” può esistere solo se c’è affinità, ascolto reciproco, confronto. Il mondo nasce dall’affinità. E se oggi viviamo tempi di devastazione e di guerra, è perché non abbiamo saputo gestirla. Io voglio ricostruirla, riabilitarla».

Secondo lei, come si sta evolvendo il suo pubblico? Chi è il suo «spettatore-tipo»?

«Capisco che è un percorso sano dal fatto che nel pubblico ci sono bambini e nonne, a volte anche bisnonne. Fa capire che c’è un’elasticità concettuale facilmente assorbibile a ogni età. Direi che il mio spettatore ideale è "l’anticonformista timido": quello che sta scomodo nella società, ma non va a spaccare tutto in piazza. È più quello che partecipa con il cuore, con le “guance rosse”. La mia community non mi chiede le foto, mi dicono: "Ho fatto questo esercizio indiano". È un’interazione molto più bella, nutriente, tra esseri umani».

Lo spettacolo come sarà strutturato? 

«La musica è sempre al centro. È un po’ come un vinile, ma con un’altra trama. C'è una voce narrante, molto centrata sui capitoli, come se fosse un libro che prende vita. Ci saranno proiezioni, e io racconterò le “riabilitazioni”. C'è tutto il mio mondo».

Un mondo che lei ha visitato nei suoi lunghi viaggi. C'è ancora un orizzonte lontano che sogna di raggiungere?

«Prossimamente dovrei riuscire ad andare in Amazzonia, l'intenzione c’è. Il Sudamerica ormai fa parte della nostra “casa invernale”: ci andiamo a "svernare"».

Lei è riuscito a costruirsi una credibilità sia nella musica che nella poesia, comunque in diversi linguaggi espressivi. Oggi, se dovesse definire se stesso, chi è Gio Evan?

«Sono l'aprifila dei timidi. Non riesco più a vedermi diviso tra musica, o romanzo o poesia. Sono convinto che se smettessi di scrivere canzoni o testi, la gente verrebbe comunque a trovarmi. Magari in un bosco, portando un albero da frutto. Per me è importante tornare a un principio di confidenza, di ascolto e condivisione. Abbiamo perso la magia del vicinato, del salutarsi senza motivo, del darsi la precedenza con un sorriso. Ricordo ancora le persone che attraversavano la strada e mi dicevano: “Che capelli che hai!”. Io portavo quella frase con me fino a notte. Queste piccole parole mi hanno dato tanto, e ora vorrei ricambiare».

Privacy Policy Cookie Policy