Nella Bat
Canosa, così l’ipogeo dell’oplita risplende di nuova luce
Recuperata l’area archeologica del IV sec. a.C.
CANOSA - È lì da anni, anzi da secoli. Millenni. Due millenni e mezzo, secolo più, secolo meno, ma sembra così sorprendentemente nuovo. È l’ipogeo dell’oplita, all’estrema periferia di Canosa, sulla vecchia strada della stazione, diventata, ai nostri tempi, una parte della strada provinciale. Un tempo, invece, di lì passava l’antico Tratturo Regio.
L’ipogeo, oggetto di un’indagine conoscitiva nel 1984, si trova al di sotto di una apparentemente anonima bassa casetta di campagna. Invece è sufficiente superare il cancello d’ingresso dell’area per immergersi in un angolo di colori e odori tipici murgiani. Un giardino con erbe aromatiche, ulivi, mandorli e due carrubi già consistenti, che lasciano immaginare una piacevole oasi di ombra per le immancabili giornate assolate. Presto, sotto quei carrubi - assicurano - saranno sistemate panchine per i turisti o studiosi che vorranno visitare uno degli ipogei dauni più «veri» di Canosa e dell’intera Apulia.
«Vero», a partire dal suo forte odore di tufo umido ma consistente, tipico della zona canosina e, in particolare, di quella zona della città dove, a poca distanza, il banco tufaceo ha rappresentato lo «zoccolo» economico, soprattutto nella prima metà del Novecento.
La casetta, bianca da poco tempo, su intervento della Fondazione Archeologica Canosina (che gestisce e cura il sito archeologico) protegge l’ipogeo che, percorsa la scalinata in ferro, è immerso letteralmente nel ventre del banco tufaceo, restituendo un’atmosfera suggestiva.
In fondo a quello che sembra un breve tunnel, il bassorilievo che dà il nome all’ipogeo. In un blocco tufaceo si staglia la figura, in piccola parte devastata, dell’oplita. Il suo scudo, la sua armatura. Un bassorilievo di un guerriero che - negli anni della follia predatoria - che deve aver subìto, ma anche respinto, il tentativo di scempio di qualche ignobile tombarolo che avrà persino pensato di «staccare» e portar via dalla parete tufacea quell’opera datata almeno IV secolo avanti Cristo.
Il bassorilievo dell’oplita, nonostante tutto, è restato lì, ed ora si offre ai visitatori in un’area archeologica - un tempo un semplice e trascurato sterrato - ora finalmente degna di questo nome.
Nel bassorilievo è rappresentata una scena di dedutio ad inferos, con un cavaliere, probabilmente lo stesso defunto, accompagnato nell’aldilà da un guerriero nel suo viaggio verso l’oltretomba.
Ma cos’è, anzi, chi era l’oplita? Era un soldato della fanteria dell’antica Grecia che aveva il compito di precedere il cavaliere in battaglia. Gli opliti portavano con sé, anche nella sepoltura, la panoplia, cioè il loro «corredo» di battaglia, costituito, in genere, dalle armi da offesa, come la spada e la lancia, e da elementi da difesa, come la corazza, l’elmo e lo scudo. E proprio lo scudo è quello del bassorilievo che si è fortunatamente salvato.
Osservarlo da vicino, da molto vicino, è un privilegio che l’antica Canusium regala accompagnando la visione con un forte odore di tufo che non lascia scampo fino all’uscita, dove, sorprendente, appare il paesaggio e l’area circostante, così ben sistemata e curata in ogni dettaglio.
Un angolo archeologico particolarmente prezioso, nel quale si coglie la civiltà contadina canosina. La distesa di ulivi, con la piacevole presenza dei ponti della ferrovia, accompagnano la visione in lontananza del colle del castello, la parte più antica della città.
L’odore del tufo lascia spazio a quello della menta e del rosmarino. Odori di una storia e di un popolo che, mentre attende impaziente che il suo nuovo museo diventi realtà, recupera cura e custodisce come può, e in silenzio, la sua grande Storia e le sue preziose testimonianze.