La memoria
«Adesso possono riposare in pace»: dopo 80 anni ricomposti i resti di 27 militari italiani trucidati dai partigiani di Tito
Grazie al Dna è stato possibile dare con certezza un nome e un cognome dopo che le ossa sono state «assemblate» e ricomposte
BARI - «Finalmente mio zio Francesco potrà riposare in pace». Maria Antonietta protegge una piccola cassetta di legno avvolta nel tricolore consegnata dal generale dei carabinieri Andrea Rispoli, capo dell’Ufficio per la tutela della cultura della memoria della Difesa. All’interno ci sono i resti del fratello di suo padre. «Era un marò, era stato dato per disperso con l’affondamento di una nave», racconta a margine della cerimonia che si è tenuta ieri a Bari al Sacrario dei Caduti d’Oltremare. Andò diversamente. Suo zio Francesco era tra i militari italiani trucidati dai partigiani comunisti di Tito. Si trovavano sull’isola di Cherso, oggi territorio croato, allora italiano, per arginare l’avanzata dell’esercito jugoslavo. Avevano finito le munizioni e si erano arresi. Furono catturati, condotti ad Ossero scalzi, costretti a scavarsi la fossa e infine giustiziati dopo che si erano già arresi. C’erano anche militari della X Mas, unità speciale della Marina agli ordini del principe Junio Valerio Borghese, che aderì alla Repubblica sociale italiana.
Nel maggio 2019, nel cimitero di Ossero, venne scoperta la fossa comune. C’erano anche le ossa del marò Francesco che adesso potrà riposare in pace nella sua Sardegna. Quasi 80 anni dopo, dunque, parola fine a un cold case bellico, con gli onori a 27 militari italiani. Per 11, grazie al Dna, è stato possibile associare i resti a un nome e cognome. Insieme a Maria Antonietta, giunta dalla provincia di Nuoro, i famigliari di altri tre soldati trucidati stringevano la loro teca di legno con le spoglie che torneranno a casa. Per gli altri 16, grazie alle ricerche storiche, si sa chi sono. Manca la prova regina del Dna non essendo stato possibile effettuare analisi comparative. Anche loro riposeranno qui.
Tutto questo grazie alla collaborazione di associazioni di esuli, ministero della Difesa, istituti di Medicina Legale di Bari e Trieste, e grazie alla raccolta fondi attivata dal settimanale Panorama e dal quotidiano la Verità. Anima di un lavoro durato anni, l’inviato di guerra Fausto Biloslavo, anche lui ieri al Sacrario Militare. «Non si tratta di riscrivere la storia, rivalutare la X Mas, dividere i buoni dai cattivi - racconta Biloslavo prima di partire per l’ennesimo scenario di guerra - ma si tratta di un atto dovuto di umana pietà. Erano militari italiani, prigionieri di guerra trucidati nell’ultimo lembo d’Italia. Si tratta di un caso unico a livello nazionale. In 40 anni di racconti di guerra ho visto tanti morti e fosse comuni. Avere contribuito a dare un nome e un cognome a caduti quasi 80 anni fa, mi tocca nel cuore. Ringrazio tutte le istituzioni, senza il contributo di ciascuna non sarebbe stato possibile tutto questo».
«Il nostro compito - spiega il direttore dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università degli Studi di Bari, prof. Franco Introna - è stato analizzare e ricomporre resti scheletrici riconducendoli a ciascun soldato, capire a quante persone appartenessero, quali fossero le cause di morte. Soldati italiani sono stati uccisi in ginocchio, con un colpo sparato sulla testa mentre erano nudi e indifesi. I corpi sono stati colpiti con un mazza di ferro, su di loro sono passati mezzi pesanti, forse un carro armato». «A Trieste - spiega il prof. Paolo Fattorini, ordinario di Medicina Legale dell’università di Trieste - è stata eseguita la comparazione genetica dei resti con il campione di riferimento del Dna fornito da 14 famiglie. Per 11 abbiamo identificato i resti». Una impresa non facile risalire ai gradi di parentela anche lontani per la comparazione.
Alla cerimonia c’era anche il senatore triestino Roberto Menia (FdI), promotore del Giorno del Ricordo, il 10 febbraio, istituito per conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe nel secondo dopoguerra. «Si tratta di vicende spesso lasciate da parte che non si è voluto trasmettere per convenienza politica. Ricordare oggi ragazzi che morirono in difesa dell’Italia è meraviglioso, vuol dire restituire loro l’onore e anche trasmettere qualcosa ai giovani che dovrebbero visitare monumenti come il Sacrario d’Oltremare di Bari. È giusto che sappiano e conoscano».
Dignità, memoria, riconciliazione le parole più utilizzate nel corso degli interventi, tra i quali quello del colonnello Cosimo Delibero, direttore del Sacrario. Sulle cassette di legno, intanto, il cappellano militare Tommaso Schirizzi cosparge l’incenso durante la benedizione. A rimanere nella memoria, però, è altro: il rispettoso silenzio in onore dei militari italiani caduti.