lessico meridionale

A me piace il presepe ma se c’è «u’ sckandat»

Giovanni Panza

È, costui, un singolare visitatore che staziona davanti alla grotta fatidica con un’espressione sgomenta

In tanti ricordiamo un personaggio di «Natale in casa Cupiello», capolavoro di Eduardo, per una battuta pronunciata con sciatto cinismo dal giovinotto Tommasino: «A me non mi piace il presepio». Più che pronunciata, era borbottata con livore screanzato. Quello dello scansafatiche accidioso e parassita che vuole rovinare la festa a Luca, il «presepiaro» protagonista.
E lo sprezzo del Presepio riassumeva iattanza e pigrizia mentale. Sotto l’egida di queste si arruolano da sempre molti stupidi sfiancati da uno snobismo attivato dal complesso dei provinciali che non riescono a capire che la Provincia è il sale della cultura italiana. «A me non mi piace il presepio». Avvertono i caporali di tutte le estrazioni sociologiche quando pretendono di altezzosamente di infliggerci il loro ego frustrato. Ma, per fortuna ci sono caporali e ci sono uomini. A me i caporali, quelli in uniforme che servono il Paese, piacciono come mi piace, moltissimo, il Presepio e l’ho messo in opera. Quest’anno l’assetto strutturale è pianeggiante e solo qua e là collinoso, un poco brullo con qualche zona sabbiosa e solo un laghetto con inevitabile fontana con vasca circondata da palme noncuranti della presenza, poco più in là, di abeti dolomitici che non ci azzeccano niente ma fanno tanta scena come le arance che danno colore gioioso.

Ho portato un cambiamento sostanziale nella regìa: la sacrosanta capanna non è più posta contro la parete, no. Tale dislocazione costringeva i pastori ad offrire le terga ai fedeli spettatori privandoli delle espressioni del viso che contano, e come! E, dunque, la capanna sta al centro del tavolo e i pastori, i pellegrini dall’incontenibile stupore, accerchiando la sacra famiglia e provenendo da l’ogni dove del mondo, mostrano il volto a noi che c’incantiamo. Non manca niente in un tripudio sincretistico di figure d’ogni provenienza: tutta la gamma dei pastori, da quello tradizionale con pecore e abbacchio regolamentare sulle spalle, al porcaro con maialini e scrofa premurosa, alla donna con formaggi e caciocavalli, allo zampognaro, si mescola allo scrivano ottocentesco, al venditore di libri usati, al fiaccheraio e al cantiniere. Da un pezzo ho esiliato il cacciatore dietro un albero e gli ho messo un fiore nel fucile. Ora non spara più agli uccellini e io gliene ho messi tre sulle spalle. La lavandaia esibisce vicino alla grotta una generosa scollatura che mostra grazie di Dio e che si prodiga lavando i panni ruvidi della Luce del mondo. Sono sicuro che Questa non rinnegherà la pia governante. Nel presepio non sono graditi i bacchettoni.

A me il presepio piace. Chi vede il teatro che «faccio» se ne accorge. Lo inventò San Francesco come una pièce teatrale e Giotto a Greccio lo testimoniò, figuriamoci. Ma amo anche il presepio regolamentare, s’intende, con tutti i personaggi e i requisiti che la tradizione impone: Sacra Famiglia, bue, asinello, angelo annunciatore di pace, lavandaia, pastore semplice e pastorella con caciotte, guardiano di porci, pescatore, suonatori di cornamuse, vagabondo addormentato. Animali in quantità.
Ho nostalgia di tutto questo e pratico con testardaggine la minuscola e tenerissima edilizia del presepio anche a casa mia, la casa di un adulto pensieroso. Ogni anno lo aggiorno con nuovi santi pastori vagabondi, con pecorelle devotissime, con magi in buona fede, ma anche con ospiti pellegrini dell’attualità e della cronaca. Devo ammettere che m’era più facile prima e, infatti, ancora annovero davanti alla capanna una «band» di suonatori di Jazz, un duo di scrivani somiglianti a Totò e Peppino e uno zampognaro tale e quale al mio dolce amico Massimo Troisi. Oggi, stante nella cronaca la penuria di nuovi candidati, candidati nel senso del candore dell’innocenza, in grado di assumere un ruolo in pianta stabile tra le pecorelle, scelgo come protagonista il pastore dei pastori: «u’ sckandat». Letteralmente, nel dialetto nostro, sta per «lo spaventato». È, costui, un singolare visitatore che staziona davanti alla grotta fatidica con un’espressione sgomenta, orante, con gli occhi sbarrati, le braccia spalancate e la bocca semichiusa in un fonema intelligibile, solo dai puri di cuore che sembra esprimere l’atterrita gioia della salvazione annunciata. È povero, non porta niente, né caciotte, né agnellini, né vino, né uova, né, tanto meno stoffe preziose o spezie: «u sckandat» porta al Dio vivente solo il suo stupore di fede e la sua letizia di speranza. E la mostra sul volto che, finalmente si vede nella nuova struttura della regìa. Nel Presepe di oggi, «u’sckandat» è il cittadino onesto, generoso, prodigo con gli ultimi e che offra, magari, le risorse utili a far presepi dovunque. Presepi fatti di altruismo, civismo, giustizia, rispetto per l’ambiente, la cultura, la scuola, la ricerca. Dovrebbe promuoverli lo Stato, questi Presepi. In attesa, diamoci da fare col candore dello «sckandat» che mi piace e mi commuove. Chi vorrà negarsi alla peregrinazione alla grotta, sarà libero di farlo e nessun pastore gli toglierà il saluto, ma se ne assuma la responsabilità. Chi vorrà ubbidire all’«Adoremus» potrà farlo con gioia. A me piace il Presepio.

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