lessico meridionale
Giustizia, si dica no alle «pezze a colore»
Purtroppo nel linguaggio popolare siamo già «alle pezze». L’esempio del bravo sarto di Bitonto
Ah! Il destino delle parole! Ve n’è di quelle predestinate a soccorrere gli uomini facitori di Storia: parole maiuscole e fatali che sembrano progettate nella evoluzione semantica per essere pronunciate, scritte, lette per tracciare solchi, disegnare confini, lanciare proclami, fondare imperi, appiccare rivoluzioni. Vi sono parole minuscole, poi, nate per essere coccolate nel
domestico, balbettate in cucina, mercanteggiate nei tinelli, pronunciate nella intimità del quotidiano. Parole e nomi che andrebbero lasciati in pace. “Pezza” è una di questi e, con le sue varianti come il vernacolare “pezza a colore”, si rivela preziosa nel lessico esplicito ed efficace del popolo. Il mio amico Filippo Tatulli, uomo retto e cordiale, mastro sartore di Bitonto, era un bravo tagliatore come tutti i veri sarti hanno da essere e cucitore e rifinitore provetto. Le impalcature dei suoi pantaloni e delle sue giacche e con tasche grandi e minuscole e “comode” di spalle e ascelle erano un capolavoro di accuratezza: tutte le cuciture e le imbottiture erano firmate da una mano abile e instancabile che sapeva armonizzare impunture e crini, sete e garze di sostegno con le stoffe che egli stesso sapeva scegliere e consigliare. Con delicatezza di costumi e naturalezza colloquiale di eufemismi sapeva abilmente rendere veniali difetti organici e forme goffe o imperfette del corpo del committente.
Era ammirevole la sua dimestichezza con la lingua dei suoi colleghi albionici: la contaminazione tra il suo bitontino e l’inglese di
Bond Street era irresistibile soprattutto quando accompagnava, con dimostrativi dialettali, termini inglesi: “cuss Prinz of Galles è perfetto per voi”. Il fatto che si rivolgesse a me, poco più che adolescente con il “voi” fece sorridere mio padre con compunto rispetto. Solo davanti al rammendo, al rinaccio o alla riparazione, Mastro Filippo si asteneva categoricamente e si ritraeva rispettoso di un’altra arte, anzi di un artigianato umile: quello della “pezza a colore”. Mastro Filippo non si sarebbe mai compromesso con il “mettere le pezze”che era, ed è, altro mestiere, rispettabile, s’intende, ma altro, rispetto al suo. Che riposi in pace nel paradiso dei sarti. Ma la “pezza” non ci lascia requie e ci sorprende nella cronaca non solo spicciola,
nella cronaca autorevole della politica. Da tempo! Ricordo niente meno che l’allora presidente del Consiglio dei ministri, Cavaliere Berlusconi, nel discorso di commiato che aveva tenuto prima di sorteggiare una delle sue nove ville per recarsi in ferie, affermò che, quanto al problema della Giustizia in Italia, bisognava “metterci una pezza”. Credo che si ostini ancora su questa linea politica di tipo molto artigianale. Il picaresco linguaggio popolare commenterebbe: “Siamo alle pezze”.
Mastro Filippo si asteneva e il premier pensava al rinaccio, al rammendo, alla toppa, insomma. Vediamo cosa può aver voluto dire.
La parola “pezza”, umile finché si vuole, ha, tuttavia, una storia antica. Già dal latino parlato preleviamo il calco celtico “pettìa” che stava per pezzo di tessuto in genere. Nel medioevo lo troviamo usato nel significato odierno di pezzo di tessuto, o altro, usato per riparare qualcosa di rotto da cui nasce il modo di dire dei politici rudi e sbrigativi “mettere una pezza” che vuol dire aggiustare alla meno peggio con la variante “rappezzare”. Metafora trattativista. Almeno che non si voglia alludere alle pezze d’appoggio, francesismo commercialistico che significava documento giustificativo. Non credo che in politichese figuri questo atteggiamento etico: sotto sotto, in un inconscio artigianale, forse si allude alle “pezze da piedi” che erano le spregevoli sostitute delle calze dei soldati negli eserciti poveri o dei poveri eserciti di mendicanti. Pare che certi rappresentanti italiani nel
consesso europeo, tentino di sfuggire le aule di tribunale, ma spero che non pretendano di farla franca e di avvilire l’immagine del nostro Paese con l’uso di un’altra pezza: quella “a colore”.
È espressione idiomatica conosciuta in tutto il meridione: “pezza a colore”. Un modo truffaldino da cui rifuggiva l’onesto artigiano Filippo di simulare, imbrogliare, di trovare un sotterfugio per camuffare piuttosto che per riparare. Le “pezze a colore” sono dei trucchi volgari per nascondere le malefatte o sbrigarsela dopo una gaffe. La nostra generazione ha conosciuto l’arte
umile e paziente delle rammendatrici che trovavano fili di lana, scampoli tessili, pezze, appunto, somiglianti nel colore e nella trama al tessuto delle nostre giacche, esemplari unici, per coprire la magagna, la consunzione o lo strappo, ma quella era abilità sopraffina. Però al di fuori della sartoria, mettere pezze non sta bene, non serve, alla lunga, non paga.
Alcuni sarti erano pronti e abilissimi a rivoltarti la giacca quando un verso era allo stremo, ma quelli onesti come Mastro Filippo
avrebbero sfuggito la metafora: “Rivoltare la giacchetta” era impensabile per lui. Era stato, ed era, socialista. Quando ha lasciato il suo banco, le sue forbici e le sue oneste pezze di stoffa era ancora convinto che i politici, so-
prattutto i socialisti, dovessero essere onesti. Sempre.