Lessico meridionale

Mi faccio i fatti miei? Non è democratico

Giovanni Panza

La comunicazione verbale spesso tradisce i nostri vizi come ad esempio quello di dimenticare la collettività

«Io mi faccio i fatti miei» è locuzione tipicamente italiana non traducibile facilmente in altre lingue per quel «mi faccio» dialettale e popolaresco. Ma l’italianità si spinge anche oltre il mero dato linguistico. Il modo di dire esprime un’antica e stagionata propensione attivata da una vita pericolosa e da una convivenza sociale difficile sottoposta alle angherie ottuse di certi poteri e sistemi politici estranei alla democrazia. I confini ristretti del familismo hanno sempre autorizzato difese naturali messe in campo con il circoscrivere all’ambito strettamente domestico la percezione del sociale. Il motto araldico corredato da nomignoli e appellativi come «padrino» e «fratello» o «compare» e «tengo famiglia». Longanesi arrivò a proporre di ricamare l’avvertimento sulla bandiera italiana.

Indicativo quel «farsi i fatti» con l’allitterazione che sembra chiudere ulteriormente l’orizzonte di rapporti. Esistono varianti dei «fatti» prelevate dal fruttivendolo come i «cavoli» o dislocate in zone innominabili del corpo che asseverano il concetto con vigore e non serve fare esempi. «Farmi i fatti miei» o i sinonimi figurati, sta ad indicare non occuparsi delle faccende altrui, ignorarle, volerle ignorare e, per ciò stesso, con più vigore e determinazione impegnarsi per le proprie.

Chi non può «farsi» i fatti propri, ma, per compito e funzione, devono «farsi» i «cavoli» altrui sono la Polizia, i Carabinieri o chiunque altri, magistratura in primis, debba ingegnarsi a conoscere gli altri e la loro vita, anche minuscola e quotidiana, se sono indagati o sospetti di reati. Nell’interesse della collettività. E se no, che ci stanno a fare? Da sempre, all’uopo, ci si è serviti di tutti i mezzi a disposizione: dalla vox populi alle esplicite delazioni, dalle spie professionali alle osservazioni camuffate. Il progredire della tecnologia ha comportato l’inerziale progresso dei mezzi atti alla spiata. Come dice la scuola sociologica, «non si può non comunicare» e se non si può non comunicare, non si può evitare che la comunicazione si offra sempre più efficacemente, quanto più sofisticata è, agli interlocutori non previsti o desiderati.

Più la comunicazione sarà necessaria alle dinamiche sociali, crimine compreso, più sarà fondamentale utilizzarla. Non se ne esce. Il villaggio globale ha le sue capère (nel magnifico dialetto napoletano, son queste le parrucchiere ambulanti che aggiornavano di pettegolezzi i vicoli), o suoi pettegoli, le sue spie, il suo vicinato occhiuto e curioso. E, dunque, ognuno pensi per sé. Si tratta di legittima difesa: chi di telefono ferisce, di telefono perisce. E, se un tale usa il telefono per delinquere, pratica la comunicazione per supportare il crimine, fa benissimo la polizia, fanno benissimo i magistrati inquirenti ad ascoltare le conversazioni e a spiare la sua comunicazione per impedirglielo. E faranno bene, anche se servirà a trascinare il reprobo ciarliero in tribunale, ad acquisire le prove per metterlo in gattabuia proteggendo tutti i cittadini e i «fatti loro». O, meglio «facevano», dovremo dire, se dovesse mai essere approvata da Parlamento qualche sciagurata legge sulle intercettazioni che spunti le armi degli inquirenti, opacizzi i controlli, mette la mordacchia alle indagini, aiuti le latitanze. La verità che tutti sanno è che qualcuno i fatti suoi se li fa molto meglio e di più e anche con arroganza e infischiandosi di tutti gli altri che non hanno lo stesso loro potere e, quindi, continuerebbero a farlo cercando di trasformare i “fattacci” propri in leggi dello stato. Perché questo tizio globale che è annidato nei meandri, vicoli e piazze del sistema politico può accadere che sia, anche, il titolare di tanti di quei fatti pubblici trasformati in fatti privati suoi, che è in grado di farsi i fattacci suoi impedendo agli altri cittadini di farsi i propri.

Ed ecco il ribellismo generico e violento delle «frange», cosiddette, dei torbidi pensatori delegate alle piazzate con il compito di farsi i «fatti nostri» minacciando la vita quotidiana, reclamando, insieme alle mafie, la cancellazione dei «fatti loro».

Quindi cade proprio il riprovevole postulato tutto italiano che consiste in quella rassegnazione a guardare solo il proprio misero «particolare» alla faccia dell’interesse collettivo. Ben ci sta. Se ci fossimo fatti meno i fatti nostri non saremmo a questo punto. Non ci resta che sperare in un rinsavimento collettivo, visto che anche nel fronte dell’opposizione in troppi si sono «fatti i fatti loro». Come si dice a Bari. La fanfaluca che vuole che si intenda difendere i cittadini da improvvide irruzioni nel proprio privato tran tran quotidiano si confuta semplicemente con saggi provvedimenti che impediscano il tracimare all’esterno dei risultati delle ricerche e delle indagini. Sempre che lasciar filtrare alcune circostanze non rientri nelle tecniche d’indagine. Almeno che non si concluda che gli indagati erano innocenti e sono stati ingiustamente vilipesi. E allora saranno «fatti» del magistrato. Questa è la democrazia.

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