Lessico Meridionale
Querce, ulivi, edere: la politica è botanica, connubio spesso non in buona fede
Il Biancofiore, le spighe e tanti altri simboli fanno parte del regno vegetale e s’insinuano... tra cicorie e fave
È voga ormai accertata quella di combinare la politica con la botanica, almeno nell’onomastica e nelle metafore sbrigative dell’oratoria comiziante.
È trascorso il tempo delle simbologie magniloquenti, la stagione antica delle Aurore sociali, dei Fasci contundenti, delle alacri Ruote dentate, dei muscolosi Proletari con Falci minacciose E Martelli spietati, delle Spade eloquenti e delle battagliere Aquile spadroneggianti su destini fatali e delle immancabili Vittorie alate. E non saprei confermare che la Repubblica Italiana, nella iconizzazione della tipografia dello stato perduri quella austera matrona armata di lancia, assisa sul trono con la corona turrita che figurava delle cambiali e su qualche francobollo. Da ragazzo, dunque, fui portato a pensare che, per far politica in Italia, bisognava fraintendere il Carducci ed essere retorici fino alla sazietà e, per far debiti, occorreva l’avallo di una Repubblica austera e implacabile.
Tutto questo, cambiali pagate e incendiate, nella parte dell’icona italica, riposa illacrimato nel patetico baule della paccottiglia con i merletti pazienti di Zia Caterina e la collezione delle cartoline illustrate con le vedute di Chianciano e la stazione di Abano. Nel sobrio turismo dei nostri antenati prevalevano le terme. E prevaleva una fantasia dislocata a metà tra tenerezze gozzaniane e truculenze dannunziane. Da questo derivava una simbologia politica altera di retorica ginnasiale e un poco tronfia, ma efficace a raccontare per la Storia e, non ancora, per la televisione.
Il connubio tra politica e botanica, invece, è recente e ambisce ad una bonarietà interessata e, spesso, non in perfetta buona fede. Ed ecco le Spighe, le Rose, il vecchio, caro Garofano, il Biancofiore, le Querce, l’Edera antica, le Stelle Alpine regionali e da gruppo misto. Abbandonato l’obsoleto Alloro, da ultimo trasferito dalle fronti dei magnanimi poeti ai fegatelli di maiale, scartati il gentile gelsomino, il ceduo mughetto e la tuberosa, destinati ad altri, più intimi usi o alle acque di colonia, come la verbena e la tuberosa, la scelta si fa ogni giorno più difficile per i nuovi, tanti partiti che il fallimento dell’impraticabile bipolarismo italiano sforna ogni giorno con insistenza.
Lo seppero bene quelli della destra che, anni or sono, optarono per una dolce e inerme Coccinella che tentò di sostituire Lupe bellicose e Aquile militanti. Non fu un successo, anzi: la coccinella arrancò e non passò la stagione. Stessa sorte toccò all’elefantino. Il pachiderma in dimensione vezzeggiativa non diede lo sviluppo e non ebbe mai le zanne. Oggi gli epigoni hanno più successo benché ripropongano nel simbolo, funebri fiamme. Altri, sempre a destra (forse) incitano quello che credono essere non un popolo, ma dei tifosi.
Va da sé che a nessuno verrebbe in mente di ricorrere ad alberi ad alto fusto come il pino ad ombrello e l’abete, già titolari di altri prodotti come il Vesuvio a Napoli e lo sciroppo al mugolio o al troppo allusivo cipresso e dopo che i più adatti sono stati cooptati già da due formazioni antiche e nuovissime al tempo stesso: Quercia e Ulivo.
A me, che tra gli ulivi sono nato, sembra che spetti una specie di diritto d’autore come a tutti i Pugliesi i quali furono molto più preoccupati della crisi dell’Olivo che non di quella dell’«Ulivo», con tutto il rispetto per questi uomini alacri e tenaci che, oggi decidono il proprio domani. Il futuro sarebbe troppo. Intanto la crisi dell’ulivo albero, oggi, mi angoscia ancora.
Ci fu il momento del fruttivendolo. Si arruolò la cicoria. Il saggio Rutelli, in un discorso di quasi venti anni or sono, a Monopoli, la propose come sobrio pasto e ancor più sobria metafora dell’asciutta programmazione politica della Margherita, in pochi minuti, invase l’immaginario collettivo dopo essere stata l’umile protagonista di tanti deschi contadini. Quale l’universo simbolico cui rinvia il vegetale fibroso? Ai più anziani ricorda anche il disgustoso sostituto del caffè bellico da tessera annonaria. Ai moderni palati suggerisce rudi diete, sane e coraggiose astinenze, frementi e silenziose vigilie, ma, soprattutto la grama attesa di tempi migliori e un provvidenziale rimedio per la stitichezza.
Ma, poi, abbiamo notizie precise sul tipo di cicoria menzionata? Il botanico ne annovera numerose, la massaia ne riconosce almeno tre o quattro, l’intenditore predilige quelle selvatiche da raccogliere nei prati incolti e da spadellare con l’aglio dorato nell’olio. (a proposito, a quando un partito dell’aglio?). E non sarebbe auspicabile anche l’alleanza politica e gastronomica della cicoria con le fave? In Puglia non ci lasceremo sfuggire il gustoso e sanissimo connubio. Ma se la cicoria ha trovato casa simbolica, le fave stenteranno, lo so. Nonostante il grottesco autolesionismo del centro-sinistra sia incoercibile, non mi riesce di intravedere all’orizzonte politico una formazione detta della «fava» o della «favetta». Immagino, piuttosto, fazioni pronte a sbandierare le cime di rapa o «riso, patate e cozze». Si perde lo stesso, ma, almeno, si mangia bene. Molto meglio che nella trattoria Cinque Stelle.