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Ci sono molte “Flotilla” nel mondo: risvegliano la partecipazione democratica

Emanuela Megli

L’esperienza della Flotilla è nata proprio da questa idea di resistenza concreta. Ha dato voce a un canale popolare, “dal basso”, in cui i cittadini hanno potuto finalmente sentire di contare

Ci sono molte “Flotilla” nel mondo, nascoste nel silenzio di un quotidiano che appare monotono ma che, in realtà, custodisce forme diverse di resistenza. Resistere oggi può voler dire seminare i germogli di un’umanità migliore: sostenere la legalità, l’ecologia integrale, le nuove generazioni, la parità di genere, affrontare gli squilibri sociali ed economici, alleviare le solitudini, combattere le malattie con la ricerca e con azioni dedicate ai caregiver. Significa migliorare le città, promuovere una buona amministrazione – dal basso e dall’alto – educare alla consapevolezza, diffondere gentilezza e amore, lavorando per un mondo migliore e rischiando in prima persona. Significa anche riscoprire il bello, alimentare la speranza e agire con concretezza. Significa uscire dall’indifferenza e dall’anestesia sentimentale e prendere una posizione. 

L’esperienza della Flotilla è nata proprio da questa idea di resistenza concreta. Ha dato voce a un canale popolare, “dal basso”, in cui i cittadini hanno potuto finalmente sentire di contare, di farsi ascoltare. Dal punto di vista psicosociale, è stata una rivoluzione pacifica: una nuova forma di partecipazione che ha mostrato il desiderio diffuso di esprimersi fuori dai canali istituzionali tradizionali, nei quali le nuove generazioni non si riconoscono più. La fiducia nelle istituzioni ha ceduto il passo alla voce individuale – già presente sui social – e, ancor più, a una voce collettiva guidata dalle Flotilla. È una resistenza al potere gerarchico e autoritario, un bisogno di collegialità e di circolarità nell’azione politica, tipica del cambio di paradigma culturale in cui siamo immersi. Un modo di fare politica più vicino alle persone e alla loro vita quotidiana. Flotilla ha mostrato un’altra via, riempiendo strade e piazze come non accadeva da tempo. Una dinamica di gruppo che unisce, perché lo scopo è comune e supera gli interessi particolaristici o individuali. Come osservava Kurt Lewin, padre della psicologia sociale, il comportamento umano è funzione dell’interazione tra individuo e ambiente. Quando un gruppo percepisce un’ingiustizia o uno squilibrio di potere, tende a riorganizzarsi, generando nuove forme di azione collettiva capaci di reagire al controllo dall’alto. Tuttavia, come ricordano anche gli studi di Gustave Le Bon e Philip Zimbardo, la forza del gruppo può talvolta trasformarsi in una forma di deresponsabilizzazione individuale: la coscienza personale si dissolve nella massa, aprendo la strada a comportamenti impulsivi o violenti. È un rischio che la storia ci ha mostrato anche in momenti di protesta, quando scioperi nati come espressione civile di dissenso sono degenerati in episodi di tensione o di violenza.

Eppure, nella maggior parte dei casi, la spinta collettiva conserva un potere costruttivo: quello di una comunità che non delega, ma partecipa. La missione resta chiara: difendere pacificamente chi subisce abusi e denunciare chi perpetra violenze. Non restare indifferenti, non accettare come “normale” ciò che normale non è. Agire, ciascuno con le proprie forze. È in questa capacità di mobilitarsi, di reagire e di proporre alternative che risiede la forza di una rivoluzione dal basso. Una spinta che, forse, potrà un giorno trasformarsi in una nuova primavera politica – e, chissà, anche partitica.

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