il processo
Taranto, la truffa del gasolio agricolo: chiesti 8 anni per Cicala, in affari con imprenditori lucani e clan campani
I modi ingegnosi per eludere i controlli: premendo un pulsante veniva iniettata una sostanza nel carburante per cambiarne il colore
TARANTO - È di 8 anni di carcere la richiesta di condanna avanzata dalla Direzione distrettuale Antimafia di Potenza nei confronti di Michele Cicala, tarantino ritenuto al vertice di una associazione mafiosa in affari con un clan campano e imprenditori lucani per contrabbando di gasolio agricolo.
È stato il pubblico ministero Vincenzo Montemurro ieri mattina, dinanzi al tribunale di Lagonegro, nel Potentino, a formulare le richieste di condanna nei confronti di Cicala e di altri imputati, tra cui l'altro tarantino Pietro Buscicchio che rischia anche lui 8 anni di reclusione.
Le indagini della Guardia di finanza di Taranto sotto il coordinamento della Dda di Potenza e del pm Milto De Nozza dell'Antimafia di Lecce hanno consentito per l'accusa di accertare che il clan guidato da Cicala aveva stretto un’alleanza con la famiglia guidata da Raffaele Diana, originaria di San Cipriano D’aversa, diventato socio occulto della società di carburanti Petrullo e per il quale il pm Montemurro ha chiesto una condanna a 12 anni di reclusione.
Il sistema era semplice: i tarantini fornivano ai campani nominativi di società titolate all’acquisto di gasolio agricolo e una volta ottenuto il prodotto veniva poi rivenduto come normale carburante per i mezzi pesanti. Il sistema di accise agevolato per il settore agricolo permetteva, secondo l'accusa, alle organizzazioni di criminali di ottenere acquistare a prezzi molto più bassi e quindi margini di guadagno molto elevati. Per gli investigatori delle fiamme gialle, guidate all'epoca dal tenente colonnello Marco Antonucci, il volume d’affari: una montagna di denaro che il gruppo avrebbe riciclato in attività legali nel capoluogo ionico: bar, ristoranti, discoteche nelle quali venivano talvolta impiegati anche uomini delle forze dell’ordine o loro familiari per evitare controlli sgraditi. Ma non solo. Per gli inquirenti l'organizzazione aveva anche studiato una serie di meccanismi per eludere i controlli. Il più ingegnoso era un sistema montato sui tir che trasportavano il carburante: un semplice pulsante montato sulla plancia della motrice permetteva, in caso di controllo da parte delle forze dell’ordine, di azionare un sistema che iniettando una sostanza nel carburante cambiava il colore per ingannare gli investigatori.
I rapporti tra il clan Cicala, il gruppo Petrullo e il clan Diana non era stato un rapporto semplice: tensioni erano spesso giunte alle stelle tanto che nelle intercettazioni emergono racconti di incontri ai limiti dello sconto. In uno di quegli, secondo quanto lo stesso Cicala racconta a un interlocutore ignaro di essere intercettato, alcuni tarantini sono saliti armati e pronti a tutto: «Ma io tenevo un programma. Massimoooo.. io stavo là, io stavo là e stavo camminando fa… aspettando là... con le pistole addosso». La vicenda tuttavia non ebbe un epilogo drammatico.
Al termine della requisitoria del pubblico ministero il giudice ha fissato la prossima udienza in cui prenderà la parola il collegio difensivo e tra questi gli avvocati Andrea e Salvatore Maggio che assistono i due tarantini.