Il caso

«La Palazzina Laf esisteva anche dopo la chiusura, ma con una forma diversa»

Giacomo Rizzo

Parla l'ex operaio De Marco: «Tanti i Basile e Caterino usati per modellare le menti dei lavoratori»

TARANTO - «Ciò che è accaduto nell’Ilva dal 1996 al 2006 purtroppo è accaduto anche dopo e purtroppo accade ancora oggi, cambia solo il colore delle tute e i protagonisti. Per il resto è continuato e continua il ricatto occupazionale e le vessazioni sugli operai di quella fabbrica».

Vincenzo De Marco, 47 anni, ex operaio del Siderurgico che, alla fine del 2018, accettò l’esodo incentivato lasciando la fabbrica dopo quasi 19 anni per aprire a Grottaglie il caffè letterario Casa-Merini, torna a parlare della sua esperienza nell’acciaieria dopo aver assistito alla proiezione del film “Palazzina Laf” di Michele Riondino. Una pellicola che ha ricostruito il primo caso di mobbing accertato in Italia all’interno di una grande industria. Furono 79 gli operai confinati in una palazzina definita “lager”, in cui non svolgevano alcuna mansione, perché erano troppo “sindacalizzati”, non accettavano la novazione del contratto di lavoro, con peggioramento delle condizioni lavorative, o il trasferimento in altri reparti. Palazzina Laf racconta la vicenda di Caterino Lamanna, interpretato proprio da Michele Riondino, un operaio dell’area a caldo che viene avvicinato dall’aziendalista di turno, Giancarlo Basile (che ha il volto di Elio Germano), dirigente del Siderurgico, che lo recluta come spia per «farsi un giro e dirgli quello che succede» in fabbrica, offrendogli la promozione a capo-squadra e l’auto aziendale.

In particolare gli chiede di riferire sulle attività del sindacalista Renato Morra, che spinge gli operai a non piegarsi alle logiche aziendali e a ribellarsi. Caterino chiede di essere trasferito nella Palazzina Laf pensando che sia un luogo di privilegio. Ma scoprirà, suo malgrado, che tutto era proibito e pianificato per lasciare gli operai nella loro solitudine, e che da quell’inferno per i confinati non c’era via di uscita prima dell’intervento della magistratura.

«Dopo aver visto Palazzina Laf - spiega De Marco - non posso che ringraziare Michele Riondino per aver fatto conoscere la realtà vissuta per anni all'interno dello stabilimento da tantissimi operai. Di aver fatto respirare quei fumi e quella polvere anche a chi li e le osservava da fuori guardandole con abitudine, come se fosse la normalità. Di aver trasmesso il ticchettio degli orologi che scandivano giornate interminabili; di quanto cattiveria e sofferenza si alternavano lì dentro».

De Marco, che fu definito il poeta-operaio, ha scritto i libri «Il mostro di rabbia e d'amore» e «Rivolto a sud» ed è tra gli autori del libro «Macerie». Fu assunto dall’Ilva nel 2000 e dopo «ben 17 anni di altoforno» fu allontanato da quel reparto per la sua denuncia in seguito alla morte di Giacomo Campo. All’epoca lo relegarono in un magazzino «a fare quasi nulla». Quello «subìto - puntualizza De Marco - dai 70 e passa esiliati in palazzina purtroppo è stato subìto anche dopo il 2006 da altri operai, in forme e modi diversi ma con gli stessi effetti. Immutato è stato il trattamento dei Riva nei confronti dei dipendenti scomodi. Ve lo dice uno che in quel mostro ci ha lottato per 19 anni».

Il pubblico in sala «è rimasto per 110 minuti – chiosa l’ex operaio - in religioso silenzio, sconcertato, a bocca aperta, per ciò che vedeva. Io invece ho passato quei 110 minuti quasi in apnea, sopraffatto dai ricordi crudeli della mia esperienza (simile) e dai ricordi dei racconti di un paio di esiliati che ho avuto la fortuna e l'onore di conoscere personalmente. Molte scene del film mi hanno raggelato per quanto specchio perfetto di ciò che passarono loro e che passai io con pochi altri». Secondo De Marco, Caterino (Riondino) e Basile (Germano) «erano e sono le due facce di una stessa medaglia all'interno del “Mostro”. Ne ho conosciuti moltissimi di Caterino e molti anche di Basile lì dentro. L'azienda usava, e usa ancora, grazie ai Basile di turno, tanti Caterino al fine di modellare a loro piacimento le menti e i comportamenti dei più, relegando ai margini invece, chi provava a lavorare in sicurezza, chi si ribellava o ancora chi chiedeva semplicemente i propri diritti, non rinnegando i propri doveri».

L’ex operaio ha definito il suo caffè-letterario un «fortino di resistenza», un luogo per «continuare a denunciare quello che accade», agorà artistica e culturale «per dare anche un’opportunità ai giovani di potersi esprimere e dove far conoscere la propria arte». De Marco si dice «convinto» che il film debba essere «proiettato ovunque e per molto tempo per essere specchio del passato e monito per i giovani che si prepareranno dopo la scuola a entrare nel mondo del lavoro, così da prepararli a non farsi sopraffare dai kapò e soprattutto a insegnare loro che bisogna lottare per rivendicare i propri diritti e la propria dignità».

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