il caso

Ex Ilva, un nuovo scippo a Taranto: sottratti 150 milioni alle bonifiche

Massimiliano Scagliarini

Dopo il blitz fallito a febbraio con il Milleproroghe, salta una quota del finanziamento per risanare le aree inquinate

BARI - Il blitz è nascosto in un articolo del decreto Energia che regala anche una boccata d’ossigeno ai fornitori. Ma dal tesoretto di 575 milioni (frutto della transazione con i Riva) destinato alle bonifiche delle aree inquinate, soldi di cui già aveva tentato di appropriarsi con il Milleproroghe, il governo porta via 150 milioni: saranno destinati a realizzare «progetti di decarbonizzazione del ciclo produttivo dell’acciaio», cioè il primo dei forni a gas necessari a convertire lo stabilimento di Taranto attraverso l’ambientalizzazione dell’area a caldo, ora marciante con forni alimentati a carbone.

La bozza di decreto discussa l’altra sera in Consiglio dei ministri rimette dunque le mani nella cassaforte dei soldi per Taranto. Un mese fa un emendamento approvato in commissione Bilancio (firmato da tutte le forze politiche ad eccezione di Lega e Fratelli d’Italia) aveva cancellato lo spostamento integrale dei 575 milioni sulle opere di decarbonizzazione, per lasciarli al servizio della bonifica dei siti inquinati. Il nuovo decreto ci riprova, seppure in una forma più soft: i 150 milioni verranno formalmente assegnati alla struttura commissariale (che è proprietaria dello stabilimento), ma dovranno essere destinati per decreto interministeriale a interventi «proposti anche dal gestore dello stabilimento» (Acciaierie d’Italia) e «sentito il presidente della Regione Puglia». È da capire se quest’ultima previsione indichi un’intesa già raggiunta con Michele Emiliano o se, invece, rappresenti una polpetta avvelenata per condividere con la Regione il peso politico di una scelta che sicuramente farà discutere. I commissari (che tecnicamente gestiscono una procedura liquidatoria) non hanno oltretutto grande interesse a gestire la fase di rilancio dell’attività dello stabilimento, ma d’altro canto non era possibile ipotizzare la concessione di un finanziamento pubblico diretto alla società pubblica che lo gestisce: gli interventi, peraltro, dovrebbero essere realizzati attraverso «organismi in house dello Stato» (Invitalia), all’interno di una sorta di cronoprogramma delle opere di decarbonizzazione che dovrà essere contenuto nello stesso decreto attuativo di competenza dei ministeri della Transizione ecologica e dell’Economia. A inizio marzo, incontrando i sindacati, Acciaierie d’Italia ha peraltro illustrato i programmi di investimento (800 milioni per i prossimi due anni): nell’elenco anche la realizzazione del primo forno elettrico cui sembrano destinati i 150 milioni.

I 575 milioni della discordia sono una quota parte del totale di 1,171 miliardi sequestrati nel 2015 alla famiglia Riva nell’ambito delle indagini sull’Ilva, soldi - poi al centro di una transazione tra i Riva e i commissari - fin da subito destinati al risarcimento ambientale di Taranto (la bonifica di 18 aree inquinate, per la maggior parte esterne al perimetro del siderurgico). D’altro canto la spesa per de-carbonizzare interamente lo stabilimento non è mai stata quantificata ma è probabilmente superiore di almeno un ordine di grandezza rispetto a quella cifra (senza contare i problemi collegati alla fornitura dell’energia necessaria al funzionamento dei forni elettrici). Ecco perché già a febbraio, quando era stata pubblicata la bozza del Milleproroghe, la condanna di Taranto era stata unanime tanto da compattare l’asse Pd-Cinque Stelle-Forza Italia sulla cancellazione dell’articolo contestato.

Lo stesso decreto di ieri sembra però tendere una mano ai fornitori dell’ex Ilva. È infatti stata introdotta la garanzia della Sace fino al 90% «per finanziamenti concessi sotto qualsiasi forma ad imprese che gestiscono stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale». La garanzia pubblica serve ad agevolare l’attivazione delle linee di credito necessarie a sbloccare i pagamenti. Già lo scorso anno la vecchia Arcelor Mittal aveva sospeso la liquidazione delle fatture ai fornitori, situazione che sembrava risolta con il subentro di Invitalia nella gestione ma che in realtà resta estremamente critica con uno scaduto rilevante. Giusto pochi giorni fa l’azienda l’azienda ha confermato la richiesta della cassa integrazione straordinaria per 3.000 lavoratori (di cui 2.500 nel sito di Taranto) sino al 2023 e salvo ulteriori proroghe fino al 2025. E restano in piedi tutti i dubbi sul closing dell’operazione per il subentro di Invitalia nella maggioranza della nuova compagine societaria, previsto per il 31 maggio ma difficilmente realizzabile.

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