nel 1989

Papa Wojtyla a Taranto 30 anni fa: cronaca di due giorni indimenticabili

Marcello Cometti

Dall'attesa frenetica agli aneddoti: il racconto della visita di Papa Giovanni Paolo II

L’applauso eruppe incontenibile, fragoroso, in quel sabato sera uggioso del 18 febbraio 1989. Riempì le navate della Concattedrale, si propagò come un’onda d’urto inerpicandosi sino al culmine dell’ardita vela marmorea ideata da Gio Ponti per quella Chiesa-simbolo della voglia di rinascita di una città da sempre in bilico fra speranza e delusione. Al microfono l’arcivescovo monsignor Salvatore De Giorgi diede l’annuncio che tutti aspettavano: Giovanni Paolo II, il Papa polacco, il Papa di Solidarnosc e di Lech Walesa, sarebbe arrivato in visita alla città dei due mari nelle giornate di sabato 28 e domenica 29 ottobre del 1989. Un annuncio che coronava un anno abbondante di lavorìo delle «diplomazie» curiali, un anno in cui mons. De Giorgi sfruttò al meglio tutte le sue conoscenze romane per arrivare al cuore di Papa Wojtyla e riuscire a fargli inserire la tappa tarantina nella sua agenda di Pontefice globe-trotter, instancabilmente in giro per i quattro angoli del mondo.

In verità, uno dei primi a suggerire a De Giorgi l’opportunità storica di una visita papale era stato il vicario generale della Curia, mons. Giovanni Zappimbulso. Che, da uomo pragmatico qual era (e sacerdote sopraffino, cresciuto alla scuola di monsignor Guglielmo Motolese) non aveva perso nemmeno un attimo, e aveva chiesto a De Giorgi di adoperarsi per la venuta del Papa addirittura il giorno stesso dell’insediamento del nuovo vescovo, il 21 novembre del 1987. Nel porgergli il saluto di benvenuto a Taranto, Zappimbulso aveva ricordato a De Giorgi, che proprio l’anno successivo la città avrebbe ricordato il ventennale della storica visita di Paolo VI a Taranto, con quella Santa Messa della notte di Natale del 1968 celebrata fra i fuochi e le braci degli altoforni del quarto centro siderurgico.

Come ricorda Giovanni Acquaviva in quel bellissimo libro che è «Una vela di speranza», edito dall’arcidiocesi e da Schena con la sapiente regia di don Franco Semeraro, già a marzo del 1988 mons. De Giorgi incontra il Papa a Roma e senza esitazione gli sottopone l’idea di venire in visita a Taranto nel ventennale della visita di Paolo VI. De Giorgi suggerisce anche due date: il 19 marzo, festa di San Giuseppe, o il 1° maggio, festa del lavoro. Il Papa polacco lo guarda sorridendo e gli dice: «Vedremo, mi scriva, e auguri per il Suo lavoro». Ma il 1988 passa quasi per intero, senza che il sogno della Chiesa tarantina possa realizzarsi. Nel dicembre di quell’anno mons. De Giorgi torna ad incontrare il Papa, e stavolta è Wojtyla a bruciarlo sul tempo: «Io voglio venire a Taranto», gli dice, stringendogli forte il braccio. Detto e fatto. Una mattina di febbraio del 1989 squilla in Arcivescovado il telefono di mons. De Giorgi. Dall’altro capo del filo c’è il sostituto della Segreteria di Stato, mons. Cassidy, il quale dà al vescovo l’annuncio tanto atteso: «Sua Santità sarà a Taranto il 28 e il 29 ottobre».

La visita di Wojtyla a Taranto non è un gesto formale, non è un passaggio episodico, a volo d’uccello, fatto giusto per «accontentare» le richieste della Curia. Il Papa polacco addenta la carne viva di una città in crisi: in crisi d’identità, con una politica che comincia a degradarsi, a sfilacciarsi, e pochi anni dopo vedrà affermarsi la tv-partito del sindaco Masaniello, Giancarlo Cito; in crisi lavorativa, con gli scricchiolìì sempre più drammatici del sistema-Ilva (ancora nell’orbita delle Partecipazioni Statali, il più grande stabilimento siderurgico d’Europa passerà al gruppo Riva sei anni dopo, nel 1995); in crisi sociale, con una violenza malavitosa che insanguina le strade e lascia indifeso il popolo degli onesti. Il programma di quella visita è una fotografia nitida, impietosa, di tutte le luci e di tutte le ombre di una città complessa, prismatica, multiforme. È un programma denso, fittissimo, senza un attimo di tregua, eppure il Papa polacco (che ha già 69 anni, e ha già subìto l’attentato ad opera del «lupo grigio» Alì Agca del maggio ’81) lo affronta con una baldanza invidiabile, un’attenzione meticolosa, non di facciata, una partecipazione ed una presa di coscienza che conquistano per sempre il cuore profondo dei tarantini.

Wojtyla atterra alle 10.30 di sabato 28 ottobre all’aeroporto di Grottaglie. Alle 11 è già nell’Ilva. Pranza con gli operai, e alle 14.50 visita la Cittadella della Carità, accolto dal suo fondatore, mons. Guglielmo Motolese. Alle 16 è nell’Arsenale Militare. Alle 16.45 si imbarca su una motonave della Marina e compie un giro in Mar Grande. Alle 18 si affaccia alla balconata del Carmine e parla ai tarantini assiepati in Piazza della Vittoria. Alle 19 in Concattedrale incontra un gruppo di sposi. Domenica 29, alle 9 è a Martina Franca, dove incontra i lavoratori dei campi e dell’artigianato. Alle 10.30 nuovo bagno di folla, questa volta nello stadio Erasmo Iacovone dove celebra la messa. Alle 15.30 è in Concattedrale, dove incontra la Chiesa tarantina. Alle 16 è nuovamente nello stadio Iacovone, dove incontra i giovani. Un tour-de-force che ha dell’incredibile, una testimonianza di affetto e di gratitudine che Giovanni Paolo II riesce, da par suo, a inanellare con una serie di discorsi incisivi, memorabili.

«Sono gli uomini, e non i numeri, che contano». Così dice Wojtyla parlando agli operai e ai dirigenti dell’Ilva, guardando fisso negli occhi il presidente dell’Iri, Romano Prodi. Giovanni Paolo II sa benissimo di arrivare in quello stabilimento vent’anni dopo Paolo VI. E sa benissimo di trovarsi al cospetto di una situazione profondamente diversa. La fabbrica della grande speranza industriale ha mutato pelle, e il Papa polacco, il Papa operaio, in quell’opificio immenso ha di fronte problemi immensi: inquinamento, tensione sociale, frammentazione culturale, tutt’attorno disoccupazione alle stelle (15mila senza lavoro nel '68, 60mila nell'89). Le facce degli operai sono cambiate, la fabbrica sta cambiando, tutto - dentro e fuori - sta cambiando. E non sempre in meglio. In meno di cinque anni 10mila posti di lavoro perduti nell'area dell'indotto industriale. Giovanni Paolo II parla ad operai che hanno cambiato pelle, ora hanno una fragilità e una paura che prima non conoscevano, sono i figli di quei contadini che avevano lasciato la vanga per vestire la tuta blu, sono giovani che hanno studiato, che provano ripulsa per quel lavoro fatto senza più entusiasmo, senza più regole. Il Papa parla di insopprimibile aspetto etico della questione sociale.

«Promuovere la capacità produttiva di un complesso industriale non è tutto, e non è neanche quello che più conta. Il valore e la grandiosità di un impianto di produzione non devono misurarsi unicamente con criteri di progresso tecnologico e di sola produttività o redditività, ma anche e soprattutto con criteri di servizio all'uomo e di corrispondenza a ciò che la vera dignità del lavoratore richiama ed esige». Giovanni Paolo II ha parole chiare anche sul nodo-inquinamento, un problema già allora drammaticamente proiettato su una fabbrica che disseminava i suoi veleni senza (o quasi) controllo. «Vi è - dice Wojtyla - la grave situazione ecologica, con le sue preoccupanti ripercussioni sulla natura, sul patrimonio zoologico ed ittico e sulla vita quotidiana delle persone. Il campanello di allarme è già scattato, anche qui a Taranto. Occorre ora far sì che le decisioni dei responsabili ne tengano conto, cosicché l’ambiente non venga sacrificato ad uno sviluppo industriale dissennato: la vera vittima, nel caso, sarebbe l’uomo; saremmo tutti noi. Quando si tratta di ripensare una situazione come questa, carissimi, due sono i criteri morali di fondo, di cui si deve tener conto. Il primo è la dignità della persona umana, creata ad immagine di Dio: «L’uomo, infatti, è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale» (Gaudium et Spes, 63).

Il secondo è la dignità stessa del lavoro, che è parte della vocazione dell’uomo chiamato da Dio a realizzarsi e perfezionarsi come persona (cf. Laborem Exercens, 4). All’uomo non è dato altro mezzo per sviluppare i talenti e le qualità ricevute, oltre che per guadagnarsi la vita. Le nuove circostanze richiedono da tutti uno sforzo di rinnovata analisi e di creatività, affinché agli uomini e alle donne di Taranto vengano offerte nuove possibilità di lavoro, possibilmente più confacenti alla realtà ambientale in cui essi vivono: le industrie del cosiddetto terziario, ma anche un’agricoltura rinnovata e tutto ciò che può gravitare intorno alla ricchezza del mare».

Ma il vero e più profondo messaggio alla città intera, il nocciolo duro di quella che verrà definita l’Enciclica Tarantina, Giovanni Paolo II lo lancia alle 18 di sabato 28 ottobre, parlando dal balcone del Carmine ad una folla immensa radunatasi in piazza della Vittoria. Col sorriso sulle labbra il Papa - che era stato preceduto da un prolisso e fischiatissimo ministro Vito Lattanzio e da un emozionatissimo e più sobrio sindaco Mario Guadagnolo - esordisce dicendo: «Finalmente si compie il nostro reciproco desiderio di incontrarci qui, nella vostra bella, antica ed operosa città dei due mari, e ringrazio Dio per il dono che ci fa». Accenna alle difficoltà economiche e sociali, alla crisi dell’acciaio, il Papa, ed esorta tutti alla speranza operosa. «Mi rendo ben conto delle vostre gravi difficoltà; ma, lasciatemi dire, le incertezze ed i problemi dell’oggi non devono far cadere la speranza. Cercate e trovate motivi di fiducia nella vostra forza di volontà; cercateli soprattutto nella ricca tradizione cristiana, in quella fede che, vissuta in pienezza, diventa forza capace di smuovere le montagne.

Di fronte alla crisi persistente, economica e morale, bisogna rifiutare le tentazioni della passività e dell’individualismo, dell’impazienza superficiale e della spettacolarità effimera, come pure ogni via illecita di speculazione privata e di gruppo, specie se a danno dei più poveri, i nuovi poveri! Bisogna rifiutare le vie della violenza diretta, ma anche di quella indiretta, che si chiama corruzione o ricatto, uso distorto del denaro e dell’informazione, manipolazione di beni comunitari e, soprattutto, rifiuto pratico della dignità di ogni uomo, anziano o nascituro, libero o carcerato. Ogni passo su questa strada rende più difficile la convivenza in una città che ha avuto sempre in onore il pane guadagnato col proprio sudore e con la propria creatività».
Il Papa chiede con forza l’impegno dei governanti, l’impegno, dice, per un impulso nuovo, e per risposte creative. Un impegno formidabile, ma carico di futuro. «Un impegno – dice il Papa venuto dall’Est - per l’uomo concreto, a partire dal più debole. Un impegno per la dignità dell’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Un impegno per i giovani, che si affacciano oggi alla vita col fervore delle loro fresche energie».

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