Taranto

Arcelor Mittal, scoppia il caso dei microchip nelle tute degli operai

fulvio colucci

L'azienda: tracciare il ciclo di vita dei dispositivi di protezione, come da lelle. i sindacati frenano

Per anni sono stati gli invisibili, ma ora rischiano di essere il contrario: visibili, fin troppo, in quel siderurgico dove fanno i conti col fuoco e la polvere. Ogni giorno. Gli operai dell’acciaieria avranno presto tute fiammanti. Nuove di zecca, col marchio Arcelor Mittal e un piccolissimo, non trascurabile, dettaglio cucito tra le pieghe delle giubbe: un microchip.

La dirigenza della multinazionale ha messo le mani avanti incontrando i sindacati il 17 giugno scorso: «Dal primo luglio attiviamo il servizio che consentirà, esclusivamente, la tracciabilità e il ciclo di vita dei dpi (dispositivi di protezione individuale: le tute da lavoro, ndr) nel rispetto di quanto previsto dalle normative vigenti».

Perché l’avverbio «esclusivamente»? Nel febbraio del 2018 scoppia all’Asl di Salerno il caso dei camici microchippati. L’Azienda sanitaria campana garantisce trattarsi di pura e semplice tracciatura dei capi in ingresso e in uscita dalla lavanderia, così come assicurato dalla ditta distributrice del vestiario e addetta alla pulizia.

La Uil, però, non si fida temendo un controllo di fatto sugli operatori sanitari, la cui posizione al lavoro è individuabile proprio grazie al microchip. Levata di scudi dei rappresentanti sindacali e polemica conseguente. Con un dettaglio: l’Asl ordina le tute, ma sospende l’attivazione dei microchip. Arcelor Mittal ha tranquillizzato i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza di Fiom, Fim e Uilm durante la discussione sui dispositivi di protezione, sulle tute appunto, sul loro consumo, su disponibilità e giacenze.

Così i sindacati metalmeccanici hanno firmato il verbale della riunione accettando l’ingresso in fabbrica degli indumenti con microchip, la fine della distribuzione di tute rigenerate, le verifiche relative a disponibilità e giacenze di vestiti da lavoro presso il magazzino generale.

Una «rivoluzione» che non ha convinto, però, il sindacato Usb sfilatosi dall’accordo e pronto a «coinvolgere gli enti esterni competenti» perché nella «chippatura degli indumenti» vede dei rischi. Quali? Nella nota inviata alla direzione dello stabilimento, i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza e le rappresentanze sindacali unitarie Usb, all’indomani dell’incontro, han fatto addirittura un po’ di (amara) ironia. Chiedendo «la sospensione immediata della chippatura del vestiario» hanno parlato di decisione «offensiva e poco dignitosa nei confronti di tutti i lavoratori, in quanto lo stesso dispositivo è previsto per legge a cani e gatti!».

Poi si sono soffermati sul nocciolo della questione ricordando che il Testo Unico sulla sicurezza numero 81 del 2008 «obbliga il datore di lavoro a fornire i dispositivi di protezione su base individuale e quando necessita la sostituzione, senza specificare il quantitativo da prelevare».

«Ricordate sempre una cosa. Dentro le tute da lavoro ci sono esseri umani. Esiste già un’efficiente tracciabilità dei consumi delle tute in base al sistema siman» dichiara il rappresentante per la sicurezza Usb Alessandro Damone intervenuto all’incontro in fabbrica, firmatario della lettera alla direzione dello stabilimento in cui il sindacato esprime il suo no alla chippatura delle tute.

Qualsiasi sito di aziende che si occupano di chippatura e lavaggio di indumenti industriali spiega i vantaggi: sicurezza e protezione, rispetto delle norme igieniche, capi non più smarribili, pianificazione dell’acquisto di nuove tute, conoscenza del vestiario mancante, verifica della quantità di capi in dotazione ai lavoratori con una più elastica gestione.

Sarà, ma Damone fa una specie di conto della serva perché, appunto, nella tuta batte un cuore, c’è un’anima. Da ascoltare, non da controllare: «Perché devo pagare un’azienda per questo servizio. Se Arcelor ci tiene al risparmio spenda quei soldi non per la chippatura ma per la manutenzione degli impianti e per acquistare più dispositivi di protezione che scarseggiano da tempo immemore ormai. L’azienda ha spiegato che gli 8 mila 200 dipendenti Ilva hanno avuto a disposizione, da gennaio a oggi, 17 mila 500 tute. Una tuta e mezza a testa. Con i Riva se ne consumavano circa 15 a testa».

Già, i Riva. Il segretario generale dell’Usb Franco Rizzo dice addirittura che la famiglia d’acciaio, rispetto ai nuovi padroni, «aveva un pregio perché non nascondeva la durezza. Ci tenevano a dare l’idea di imprenditori ferrei. Arcelor Mittal vuol mostrarsi aperta al dialogo con dipendenti e territorio, ma tutte le loro azioni vanno in senso contrario. Se fanno un passo simile sulle tute, in tema di controllo dei lavoratori non si sa dove potremmo andare a finire». Di certo sappiamo dove andremo noi» conclude Damone: «All’Ispettorato del Lavoro e soprattutto alla procura della Repubblica, denunciando l’azienda».

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