La storia

Bari, la fabbrica di mine scomparsa: «Io da produttore a sminatore»

Enrica Simonetti

L’ingegnere pugliese Vito Alfieri Fontana è stato fino al 1993 direttore della Tecnovar, nella sua fabbrica delle armi, nella zona industriale di Bari, sono stati prodotti 2 milioni e mezzo di ordigni esplosi in mezzo mondo. La svolta è stata dettata dal cuore

BARI - Tre capannoni sotto un cielo di nuvole: è quel che resta della fabbrica delle armi. Bari, Zona Industriale, l'uomo delle mine osserva la sua ex Tecnovar, l'azienda in cui ha progettato e prodotto due milioni e mezzo di mine esplose chissà dove in mezzo mondo. Ma l'esistenza di Vito Alfieri Fontana è cambiata, «anche se tutto è cominciato e finito qui», dice, guardando lo spazio in cui per decenni la sua azienda di famiglia ha fatto affari sulla guerra.

Poi, l'ingegnere barese ha dato una svolta dettata dal cuore: è diventato sminatore, ha compiuto il percorso inverso, mettendo in gioco la sua vita e lavorando per vent'anni nei Balcani, tra i campi minati e i pericoli di un territorio che ha tanto patito. Un po' come lui, che nella scelta di chiudere tutto nel 1997 e di pagare lo scotto della violenza procurata, ha perso tanto, ma anche guadagnato moltissimo.

Cosa? Almeno la forza di gridare al mondo «Ero l'uomo della guerra», come recita il titolo del libro da lui scritto con il giornalista di «Famiglia Cristiana» Antonio Sanfrancesco, appena pubblicato da Laterza. Un volume forte, fortissimo, in cui Fontana racconta le sue due vite, prima e dopo il cambiamento, con la pace che gli esplode come una mina nel cuore.

Sullo sfondo, una Puglia, o meglio un universo industriale che, nel nome del profitto, non si pone domande. La vera domanda però Vito l'ha ricevuta un giorno da suo figlio, quando il bambino vide un depliant della produzione industriale paterna e chiese: «Papà, ma tu sei un assassino?».

Un quesito che ancora risuona qui, dove siamo, tra Bari e Modugno, dove si producevano le terribili mine che l'ingegnere barese descrive, quasi abbassando il capo contrito: «Ne avevamo di ogni tipo, quelle che feriscono, quelle che fanno saltare gambe e piedi, quelle che uccidono». Si producevano in questi capannoni di cui tutti sapevano, perché la famiglia Fontana è sempre stata molto conosciuta. «Da quando mi sono posto il dilemma e ho deciso di mollare tutto, non è stato per nulla facile – racconta – perché c'erano i familiari, dipendenti, c'erano mille problemi e non ultimo quello del mio nucleo familiare che si è messa in gioco con me».

Fontana ha avuto due vite. Nelle pagine del libro le descrive entrambe e, senza orpelli - ma solo con la forza della sua storia ben raccontata con stile giornalistico - ci fa entrare prima nella fabbrica della morte e poi in quella della vita ritrovata. La sua vita personale e quella delle popolazioni «liberate» dalle mine a Pec-Peja, a Belgrado, Nis, Pristina e attorno Sarajevo. Un tempo incontrava i signori della guerra che acquistavano armi. Nei Balcani, arriva come volontario, come uomo che ha capito e che partecipa alla campagna umanitaria anti-mine insignita dal Premio Nobel per la Pace. Dalla zona industriale di Modugno, Fontana arriva anche a Oslo al fianco del grande attivista americano Jody Williams e qui – spiega – «ho anche avuto un dialogo, carico di imbarazzo, con un ragazzo che non dimenticherò mai, un ex soldato con il corpo sventrato e reso disabile da una mina... eravamo uno di fronte all'altro nel dolore comune...». Strette di mano e partenze, volontariato e lacrime fanno parte della seconda vita di Vito, che rinuncia all'agiatezza e alla presenza in famiglia per andare laggiù, dove si muore a causa della guerra. Gino Strada, sua moglie, la forza di don Tonino Bello, ma anche una donna trainante come Nicoletta o una Madre Teresa di Calcutta sognata e poi casualmente incontrata, sono le persone che fanno parte di questa seconda esistenza, che «non avrei mai potuto avere se mia moglie Augusta Tota e i miei due figli non avessero partecipato alla mia battaglia, comprendendo me e sostenendomi ogni momento».

La voglia di raccontare e di scrivere è una mano tesa verso l'idea di pace. Un modo per sottolineare che ciascuno di noi può creare piccole o grandi avventure significative. E soprattutto cambiare: la storia di Vito Alfieri Fontana fa soffiare un vento di pacifismo e scatena l'uragano della speranza, perché rivoluzione è rinascita.

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