Punti di vista

Carlo Levi, Orazio Flacco e lo sguardo sul Giro d’Italia

Gaetano Cappelli

Suggestioni e riflessioni sulla tappa dell'evento sportivo nel Vulture, tra le zone più verdi del Paese. Una terra ricca di foreste impenetrabili, vigne e oliveti rigogliosi

E la sorpresa del telespettatore, mediamente «acculturato» davanti alle immagini dei nostri «belli boschi» lucani, crivellati del sole di primavera, alla partenza della quarta tappa del Giro d’Italia da Venosa? Ma come, si sarà detto, ma allora la desertica desolazione mitizzata da Carlo Levi nel suo celebre Cristo si è fermato a Eboli? Ehi, ma qui siamo nel Vulture, bellezza!, tra le zone più verdi d’Italia. Una terra di foreste impenetrabili e vigne e oliveti rigogliosi. E altro che desertica desolazione! Basta tendere l’orecchio… lo sentite no? lo sciabordio dei torrenti, lo zampillare delle celebri acque minerali imbottigliate fin dal 1896: tre anni prima, cioè, della San Pellegrino. Ma non ci troviamo geograficamente dopo Eboli, si chiederà ancora il telespettatore mediamente «acculturato»? La terra, ovvero, dove secondo il fantasioso esotista Levi Carlo, «Cristo non è mai arrivato, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, […] la ragione e la Storia»?

Ora dai, ma una frase così possiamo immaginare l’abbiano detta, al limite, i missionari spagnoli al cospetto dei nativi americani, non un intellettuale europeo del Novecento! Macchè, davvero l’allegro gentiluomo torinese che amava travestirsi da contadino, non sapeva, per restare ai luoghi della tappa del Giro, che Venosa, sempre al di sotto di Eboli, avesse dato i natali a Orazio, il colto liberto divenuto poi il poeta di fama planetaria e l’influente ideatore di massime e slogan ancor oggi assai in voga, tipo Carpe diem o quell’Odi profanum vulgus, et arceo («Odio il volgo profano, e lo tengo lontano»), che due millenni prima di Sir W. M. Thackeray, getta le basi dello snobismo, inteso come argine al luogo comune e i conformismi.

Ecche, sempre a Venosa, fosse nato Carlo Gesualdo, il potente principe nipote di San Carlo Borromeo, efferato uxoricida sì, ma anche immenso madrigalista e, come certificato da Igor Stravinskij e Frank Zappa, pioniere della più spericolata musica a venire?

Sissì, risponderanno a questo punto i «giustificazionisti», ma è perché Levi lo avevano confinato in una zona «particolare» della Basilicata. Questo sarà pur vero ma è anche vero che scrisse le stesse cose su Matera, secondo lui talmente arretrata – un vero e proprio covo di cavernicoli – che, nelle farmacie, nessuno sapeva dell’esistenza dello stetoscopio; e stiamo parlando del 1935/36.

No, la verità vera è che se invece che ad Aliano, lo avessero inoltrato in un villaggio contadino della Valtellina, Levi avrebbe potuto scrivere tranquillamente Cristo s’è fermato a Sondrio – la cultura contadina essendo uguale ovunque – ma certo nessuno ne avrebbe fatto un eroe come noi, succubi di questa strana forma di sindrome di Stoccolma: come in quella patologia ci si innamora dei propri carcerieri, noi lucani ci siamo innamorati infatti di Levi che ci ha graziosamente rinchiusi nella gabbia del terronismo.

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