Parole, parole e parole
Nessuno osi sperare di liberarsi dei libri
Non siamo nati per scrivere e leggere, ma siamo dotati di un cervello che è capace di meravigliosi adattamenti
Non siamo nati per scrivere e leggere, ma siamo dotati di un cervello che è capace di meravigliosi adattamenti. L’uomo ha imparato a parlare forse da 150-180.000 anni. Da un periodo molto più limitato, più o meno da 5.500 o 6.000 anni, ha inventato la scrittura, quasi contemporaneamente e indipendentemente in due territori diversi, in Egitto e in Mesopotamia, la terra tra i fiumi Tigri ed Eufrate, corrispondente a parte di Siria e di Iraq, un tempo culla della civiltà a cui facciamo riferimento, oggi teatro di guerre e di atrocità di ogni genere che ci lasciano quasi sempre indifferenti. Invenzione geniale. Qualcuno riesce a inventare il sistema per tracciare con rudimentali strumenti (agli inizi una pietra appuntita o altro oggetto idoneo allo scopo) dei segni su un supporto in grado di fissarli (la parete di una grotta, argilla, coccio, poi via via elementi più evoluti). Qualcuno altro è in grado di interpretare quei segni e di capirne il significato. Con questa invenzione vengono superati i limiti di spazio e di tempo connaturati alla fragilità umana: non più solo hic et nunc «qui e adesso», come succede alla lingua orale. Nella storia dell’umanità la nascita della scrittura, svolta rivoluzionaria, risponde alla capacità di comunicare con altri valicando le restrizioni di spazio e di tempo intrinseche all’oralità. Consegnando il proprio pensiero allo scritto l’uomo supera la contingenza, tende all’eterno.
All’inizio supporti rudimentali, poi mezzi più adatti allo scopo, poi carta e pergamena, poi manoscritti, a volte di pregio e raffinati, impreziositi da miniature. L’avvento della stampa (poco dopo la metà del Quattrocento) e la fabbricazione di libri in serie rappresentano un nuovo salto qualitativo di enorme importanza. Il libro a stampa, riproducibile con una certa facilità e meno caro rispetto a quello copiato a mano, produce una spinta culturale senza pari, anche in ambienti socio-economici non elevati. Fasce sempre più ampie di popolazione possono più agevolmente accostarsi ai libri e al sapere in essi contenuto, sia pure con progressione lenta. Il livello di civiltà di una società si misura dalla quantità di libri in circolazione e dal numero dei lettori. La popolazione adulta di una società che non legge regredisce ineluttabilmente verso forme di analfabetismo o di semianalfabetismo. Se il cervello delle persone in età adulta non viene costantemente allenato arretra rispetto ai livelli raggiunti nell’adolescenza e in gioventù, le competenze acquisite a scuola si deteriorano, entrano in crisi perfino le abilità di base (leggere, scrivere e far di conto). Al contrario, se si creano le condizioni idonee, l’apprendimento può continuare a qualsiasi età, non si finisce mai di imparare. L’indagine internazionale PIAAC («Programme for the International Assessment of Adult Competencies»), varata dall’OCSE, esamina la capacità degli adulti di molti paesi nel mondo (tra cui l’Italia) nei seguenti ambiti: lettura e comprensione di testi scritti, risoluzione di problemi matematici, conoscenze linguistiche. Dall’inchiesta risulta che nella società italiana contemporanea il cosiddetto «analfabetismo di ritorno» incombe pericolosamente. Solo il 30 per cento degli italiani adulti ha un rapporto sufficiente con lettura, scrittura e calcolo. Gli altri si muovono in un orizzonte ristretto, assistono a quel che succede vicino e lontano senza comprendere esattamente il senso degli avvenimenti, quindi hanno ridotte possibilità di partecipare attivamente alla vita sociale ed economica. Ne risulta minata la democrazia, dalle fondamenta. Altre indagini offrono dati ugualmente impressionanti. Più della metà della popolazione italiana adulta dichiara di non leggere, in un anno intero, neppure un libro. I motivi della ridotta o inesistente lettura, che coinvolge anche laureati e dirigenti, risiedono (per dichiarazione esplicita di molti intervistati), nella mancanza di interesse: quello che è nei libri, di qualsiasi argomento (compresi temi poco impegnativi come la cucina e i viaggi) non attrae l’attenzione dei potenziali lettori. Magari sono le stesse persone che apprezzano insopportabili trasmissioni televisive affollate di sconosciuti e di famosi in gara tra loro o di influencer strapagati. Ma leggere no, non si va oltre lo schermo, televisivo o del computer o del tablet. Il disinteresse verso i libri è confermato dai dati che riguardano i consumi e le spese delle famiglie: solo il 10% spende in un anno qualche euro per comprare libri non scolastici. Di conseguenza, nella metà delle famiglie italiane mancano del tutto (o sono presenti in misura irrilevante) libri non scolastici.
A volte si discute della scomparsa del libro, assediato dalle nuove modalità digitali che si affiancano alle forme tradizionali di diffusione del sapere. Alcuni anni fa Umberto Eco e Jean-Claude Carrière pubblicarono un libro dal titolo illuminante: Non sperate di liberarvi dei libri. Una vera e propria dichiarazione d’amore. Ne ricordo una sola frase: Il libro appartiene a «una tecnologia eterna di cui fa parte la ruota, il coltello, il cucchiaio, il martello, la pentola, la bicicletta: una volta che li avete inventati, non potete fare di meglio». Invenzione perfetta, l’uomo non potrà mai rinunziarvi. Il motto che fu di Flaubert, «Leggi per vivere», non ha più senso nella società postindustriale e digitale? Non pare. Riaccostiamoci ai libri. Qualche sera, invece di navigare senza sosta in rete o di saltellare da un canale televisivo a un altro nella speranza di trovare una trasmissione decente, leggiamo qualche libro. Lì c’è tutto.