Parole, parole e parole
Cellulari in classe: vizi e virtù di un «ospite indesiderato»
Sbagliato demonizzare la tecnologia ma i rischi sono tanti
Nel 2017 la ministra Fedeli, allora titolare del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, varò un «Piano Nazionale per l’educazione digitale», documento di indirizzo che mirava a stabilire una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana e a dare indicazioni per un nuovo posizionamento del sistema educativo nell’era digitale (il burocratese non è mio, è di chi scrisse quel piano). Un gruppo di esperti avrebbe dovuto fissare le regole riguardanti l’utilizzo di smartphone e tablet in classe, mettendo ordine nelle circolari in materia e pubblicando linee guida chiare per le scuole, allo scopo di promuovere un uso consapevole del digitale, in accordo con aggiornate esigenze didattiche. Si trattava di modificare le disposizioni di una circolare del marzo 2007, diffusa dall’allora ministro Fioroni, che vietava l’utilizzo del cellulare durante le ore di lezione, drasticamente
Sappiamo come è andata. L’auspicata omogeneizzazione nei comportamenti non c’è stata. Gli sconfortati insegnanti cercano giorno per giorno, empiricamente e con buon senso, di ricercare punti di equilibrio tra le spinte contrastanti di studenti e genitori, l’efficacia dell’insegnamento e dell’apprendimento, l’organizzazione complessiva della didattica. Nella maggior parte dei casi il cellulare appare ospite indesiderato in classe, nascono dispute continue perché gli studenti non lo usino a sproposito durante le lezioni. In questo territorio accidentato cala ora una novità. Il ministro dell’Istruzione e del merito Valditara ha annunciato la messa al bando degli smartphone nelle classi fino alla scuola secondaria di primo grado e la reintroduzione, per gli studenti, del diario cartaceo invece di quello elettronico. I giornali che hanno ripreso la notizia hanno in maggioranza espresso critiche, attribuendo tali decisioni a un atteggiamento reazionario e ostile alla modernità. Ma non è facile decidere, il tema del digitale a scuola divide e crea polemiche. Conviene discuterne senza pregiudizi, senza soffiare sul fuoco, interrogandosi sull’uso che si fa di esso e sulle conseguenze connesse a possibili eccessi. Sono questioni importanti, bisogna esaminarne tutte le implicazioni, offrendo al lettore elementi di riflessione e non pregiudizi.
Il cellulare fa parte delle nostre vite, nessuno si sogna di respingerlo. I ragazzi della «Generazione Z», nati entro il 2010, considerano il cellulare più o meno una protesi naturale da cui non riescono a separarsi neanche per brevi periodi, neanche quando vanno a dormire. Per non parlare di quelli ancora più piccoli: ognuno di noi avrà visto bambini appena in grado di camminare che maneggiano con disinvoltura un cellulare. Questa è la realtà, a cui si affiancano indizi significativi. L’esperienza quotidiana di utilizzo da parte dei giovani di smartphone e tablet spesso testimonia lo sfruttamento superficiale e parziale, a volte distorto, delle enormi potenzialità di tali strumenti.
Ci sono rischi notevolissimi. Ricerche serie mostrano che l’uso smodato delle tecnologie determina una caduta nella capacità di scrivere delle giovani generazioni, con grafie spesso illeggibili e strani miscugli di stili e caratteri nelle stesse parole: corsivo e stampatello, maiuscolo e minuscolo. Ne viene compromessa la manualità: molti alunni delle scuole elementari hanno difficoltà a usare le forbici e compiere gesti semplici come dividere un foglio in quattro o allacciarsi le scarpe. Ancora più gravi sono i problemi di apprendimento. La caduta che investe la capacità di scrivere correttamente comporta l’attenuazione, e talvolta la perdita, della capacità di coordinare il pensiero con l’attività necessaria per tracciare i segni grafici. L’intervento nella scrittura digitale di correttori automatici riduce la consapevolezza ortografica. Di più. Il ricorso ossessivo alla funzione copia e incolla riduce la necessità di sviluppare una linea argomentativa coerente. La tecnologia abitua i bambini a credere che c’è sempre una risposta all’esterno, e non nella loro testa. L’umanità si disabitua a pensare.
Manfred Spitzer, neuroscienziato, nel 2013 scrisse Demenza digitale, rilevando i danni mentali che nascono da un uso dissennato degli strumenti tecnologici. I quindicenni che raggiungono i migliori risultati in lettura e matematica sono quelli che utilizzano le tecnologie meno della media dei loro compagni. In alcune scuole svizzere, finlandesi e svedesi l’uso delle tecnologie è inibito fino ad una certa età o fortemente limitato. Negli Stati Uniti rientra nelle scuole la scrittura corsiva a mano, quasi scomparsa in quella società.
Certo. Non ci sono ricette semplici di fronte a problemi complessi. La tecnologia non va demonizzata né possiamo fermare la modernità che avanza. L’apprendimento è un procedimento complesso. Tradizione e innovazione devono coesistere.
Centrale, come sempre, è il ruolo degli insegnanti, chiamati a misurarsi con il nuovo senza chiusure, con flessibilità e intelligenza. Sono i buoni insegnanti a fare una buona scuola: le tecnologie, usate con intelligenza, al più possono aiutare (o danneggiare).