Parole, parole e parole
Il passato e il futuro della nostra lingua
La lingua italiana vive da più di mille anni. Le più antiche manifestazioni scritte della nostra lingua risalgono al IX-X secolo: graffiti, iscrizioni, testi giuridici e religiosi, atti notarili rispondono a bisogni primari e pratici della comunicazione
La lingua italiana vive da più di mille anni. Le più antiche manifestazioni scritte della nostra lingua risalgono al IX-X secolo: graffiti, iscrizioni, testi giuridici e religiosi, atti notarili rispondono a bisogni primari e pratici della comunicazione. Poi, poco alla volta, si mettono per iscritto altri tipi di testi, nati per soddisfare più complesse esigenze del vivere associato e rispondere a sollecitazioni differenti. Per secoli pochi erano in grado di scrivere. La scrittura era appannaggio di cerchie ristrette, poche categorie avevano accesso all’alfabeto. Gli altri, illetterati e non scolarizzati, non sapevano scrivere e anche nell’oralità si esprimevano per lo più in dialetto.
Ancora al momento dell’Unità politica (raggiunta solo nel 1861) l’Italia aveva una percentuale complessiva di analfabetismo all’incirca del 70% e una generale condizione di arretratezza culturale. Vi erano fortissime differenze territoriali, fra aree e aree del paese: la percentuale di popolazione analfabeta, già critica nelle regioni del Nord, aumentava nel centro d’Italia, crescendo ulteriormente e arrivando a sfiorare il 90% nel Mezzogiorno continentale e nelle isole. L’analfabetismo comportava condizioni economiche miserrime per popolazioni in larga maggioranza contadine, servi della gleba nell’Italia unita. I nostri progenitori di oltre un secolo e mezzo fa, comunicavano quasi esclusivamente in dialetto.
L’unità politica favorì apprezzabili iniziative statali nel campo dell’istruzione, a partire dalla legge Coppino del 1877, che per la prima volta garantiva agli italiani alcuni anni di istruzione pubblica e obbligatoria. E parallelamente si generarono situazioni collettive e sviluppi che comportavano il ricorso alla scrittura: omogeneizzazione amministrativa e militare, incremento del giornalismo, partecipazione (sia pure dei soli ceti abbienti) alla vita politica, creazione di infrastrutture viarie, accumulo e concentrazione di capitali, industrializzazione (lo ha spiegato Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, libro fondamentale).
Le grandi migrazioni di massa, interne ed esterne, e le due guerre mondiali indussero il bisogno di scrivere per necessità. Emigranti, soldati e prigionieri trovarono nella scrittura un rifugio contro la lontananza forzata, uno spazio in cui combattere l’isolamento e una strategia di sopravvivenza. Donne e uomini, anche senza esserne pienamente capaci, presero la penna e forzarono una barriera. Rivendicarono così il diritto di esistere in una società in cui scrivere era un privilegio. Scrivere per non morire, affascinante!
Nel secondo dopoguerra del Novecento, dopo la fine del fascismo, reclamato da intellettuali lungimiranti, condiviso dalla parte migliore della classe politica del tempo, l’obiettivo di un’adeguata istruzione obbligatoria, generalizzata e pluriennale, è acquisito da settori ampi della popolazione: contadini e operai capiscono che l’istruzione costituisce veicolo per il progresso individuale, si accorgono che la laurea si rivela un formidabile ascensore sociale, constatano che i figli dei poveri (se studiano) possono migliorare la loro condizione. Il possesso dell’italiano scritto e orale, favorito dalla scolarizzazione delle fasce giovanili, è rinforzato da migrazioni interne verso le grandi città che portano masse di dialettofoni a cercare una lingua comune.
L’italiano è diventato lingua nazionale grazie allo sviluppo dell’insegnamento scolastico e delle relazioni sociali, grazie ai mezzi di comunicazione (giornali, radio e televisione), grazie alle migrazioni di Rocco e dei suoi fratelli (inurbati tra mille difficoltà) e di milioni di uomini e donne diretti verso le fabbriche del Nord, con le valigie di cartone e parlando dialetto. La partecipazione alla vita dei partiti e dei sindacati non fu solo politichese, sindacalese e brogli, ma anche promozione culturale e sociale. La televisione riversò un fiume di italiano (semplice, «educato») in case in cui si parlava quasi sempre dialetto. Non volgarità e pettegolezzi, anche cultura e informazione seria. Decennio dopo decennio il possesso della lingua scritta nazionale migliora, il rapporto degli italiani con carta e penna diviene progressivamente meno ostico, pur se scrivere resta a lungo un’attività non facile né consueta.
Oggi l’italiano è diventato bene comune: i censimenti assicurano che circa il 94% della popolazione si esprime correntemente in italiano. Decisivo in questo processo fu l’insegnamento scolastico, maestre e maestri, professoresse e professori furono artefici dell’unificazione linguistica del paese. Il ruolo della scuola è centrale anche oggi, pur se molti lo ignorano, a partire dai gruppi dirigenti. Ricomincia l’anno scolastico, e non mancheranno dichiarazioni di esponenti politici e articoli sui giornali che parleranno della scuola e delle questioni che ne ostacolano il buon funzionamento. Insegnanti precari e sottopagati, burocratizzazione crescente, digitalizzazione inadeguata, qualità dell’istruzione non sempre eccellente.
Tutto è enormemente complicato dalla struttura multi-etnica della nostra società, che nella scuola trova il primo fondamentale banco di prova. Saremo in grado di misurarci con tale questione epocale, saremo lucidi e tolleranti, punteremo all’integrazione di coloro che aspirano a essere cittadini italiano a pieno titolo, o li confineremo in classi di soli stranieri, come qualcuno fa già? Nella scuola si decide il futuro della società multi-etnica. In questo percorso la conoscenza della lingua nazionale è decisiva: si è cittadini italiani in primo luogo parlando e scrivendo l’italiano.