Parole, parole e parole

Latino o esperanto? Purché sia identitario

Rosario Coluccia

Nel mondo si contano, secondo calcoli attendibili, più di 7.000 lingue diverse. Alcune parlate da centinaia di milioni di persone, altre da pochissime. Tutte importanti e da salvaguardare, la diversità linguistica è positiva, come la biodiversità dei sistemi animale e vegetale; la diversità assicura il mantenimento di equilibri (dinamici nel tempo) attraverso la rete delle relazioni interne. A una simile straordinaria varietà, da preservare perché fisiologica e positiva, alcuni affiancano (e a volte contrappongono) l’esigenza di offrire a tutti i popoli della terra una lingua unica e sovranazionale, in grado di garantire una comunicazione facile, che favorisca i rapporti reciproci tra individui e nazioni, promuova lo sviluppo dei commerci e dei rapporti economici e industriali, assicuri gli scambi fra diversi ambiti della cultura e della ricerca.

Sovranazionale fu in passato il latino, lingua parlata nel vastissimo impero romano, poi per secoli mezzo privilegiato per comunicare tra le persone colte, adottato nell’insegnamento universitario, lingua ufficiale del rito nella Chiesa cattolica fino alle decisioni del Concilio Vaticano II del 1962-1965, studiata ancor oggi nelle scuole, non solo nelle nazioni dove si parla una lingua da esso derivata (italiano, francese, spagnolo, catalano, portoghese, rumeno ecc.).

Nel medioevo e anche dopo, per secoli, fu lingua veicolare politica, accademica ed ecclesiastica. Ma questo non può ripetersi, nel terzo millennio. Perfino l’insegnamento del latino nelle scuole potrebbe esser visto da alcuni come una sorta di status symbol, fatto a misura per una élite fortunata, che può proseguire negli studi classici mentre la maggioranza si dedica a scuole di carattere pratico, professionale o tecnico.

Pasolini, figura che evochiamo con nostalgia nel conformismo di tanta cultura contemporanea, abituata a suonare il piffero per ingraziarsi il potere, così si esprimeva a proposito delle ipotesi di riforma ministeriale che riduceva drasticamente il ruolo del latino nella scuola media (l’insegnamento del latino nella media fu abolito nel 1978): «Il povero latino delle medie è un primo, minimo mezzo di conoscenza di quella nostra storia che la ferocia capitalista cerca di mistificare, facendola sua. È perciò un errore voler abolire l’insegnamento del latino: un errore come ogni tattica. Lo scacchiere della lotta è immenso e complesso: il latino è solo apparentemente un’arma del nemico».

Oggi lo studio del latino è in risalita, e alcune scuole (in maggioranza non statali, purtroppo) lo reintroducono nel piano di studi come elemento innovativo perché è in grado di affinare le competenze interpersonali, sociali e di cittadinanza fondamentali per il percorso di crescita degli studenti.

Attualmente è indubbia la supremazia funzionale dell’inglese, parlato in tutti i continenti, spendibile sul mercato del lavoro, usato correntemente nei contesti internazionali e anche in mille occasioni della quotidianità, ad ogni livello sociale. Ma l’inglese, espressione e marchio della cultura anglo-americana, non può assurgere al rango di unica lingua internazionale, i popoli e le culture del mondo non possono abdicare alla propria lingua identitaria. Si spiegano così, come accorata difesa della propria identità, le reazioni di fronte alla invasione degli anglicismi attuate da molte lingue di cultura, in forma più o meno accentuata e mettendo in atto strategie diverse. Lo statuto di lingua internazionale non può essere riconosciuto a una sola lingua reale, relegando a un rango inferiore tutte le altre.

Secondo alcuni occorrerebbe creare una lingua artificiale analoga a quelle naturali, che possa essere sentita come neutra, quindi accettata da tutti gli utenti. Una lingua semplificata, razionalizzata nella grammatica, con un lessico il più possibile vicino a quello delle lingue reali: tale lingua potrebbe nascere da una comparazione equilibrata tra le lingue naturali esistenti, muovendosi all’interno di quelle più diffuse e conosciute.

Il tentativo meglio riuscito e più noto di questo tipo è rappresentato dall’esperanto, proposto al mondo da Lejzer Ludwik Zamenhof, che nel 1887 pubblicò, con lo pseudonimo di Doktoro Esperanto (dottore speranzoso), un libro intitolato Lingua internazionale. Nato da una famiglia ebraica in una località lituana che apparteneva al regno di Polonia (allora sotto il dominio degli zar russi), Zamenhof era cresciuto in un crogiuolo di razze e di lingue, attraversato da fermenti nazionalistici, da continue ondate di antisemitismo, da forme di oppressione verso le minoranze, da persecuzioni contro gli intellettuali, particolarmente ebrei. Zamenhof sperava che la sua lingua artificiale e universale costituisse uno strumento di concordia in un contesto di sopraffazione come quello nel quale egli era cresciuto. Strumento di fratellanza, la lingua artificiale così costruita doveva mantenersi lontana da posizioni ideologiche particolari, mostrarsi in grado di attrarre uomini di idee religiose, politiche e filosofiche diverse (ne parla in maniera illuminante Eco, La ricerca della lingua perfetta).

In esperanto si scrivono libri e articoli. L’esperanto, come ogni lingua artificiale, non può sostituire la lingua materna, quella nella quale abbiamo cominciato a parlare e alla quale affidiamo i pensieri più raffinati e i sentimenti più profondi. Nessuno, in punto di morte, al momento di invocare il proprio Dio o la propria madre, si esprimerebbe in esperanto. La lingua artificiale non ci appartiene.

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