PAROLE PAROLE PAROLE

La lingua italiana, un bene da preservare

Rosario Coluccia

Settant’anni fa, alle 11 in punto del 3 gennaio 1954, iniziarono ufficialmente le trasmissioni Rai

Settant’anni fa, alle 11 in punto del 3 gennaio 1954, iniziarono ufficialmente le trasmissioni Rai. L’annunciatrice Fulvia Colombo pronunciò le prime parole: «La Rai, Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive». Quel giorno gli abbonati privati erano 90, dopo un mese 24mila, dopo un anno quasi 90mila. L’anniversario non ha avuto molto spazio nei media di queste settimane.

Nel processo novecentesco di diffusione e standardizzazione dell’italiano, la televisione ha svolto un ruolo fondamentale. Per secoli l’italiano, nato oltre mille anni fa, fu soprattutto la lingua usata dalla parte istruita della società e dagli scrittori. Gli altri si esprimevano per lo più in dialetto. L’unità politica, raggiunta nel 1861, avviò processi significativi ma lenti. Solo nei primi anni della Repubblica (nata settantacinque anni fa) il cammino verso l’italiano fu accelerato da una serie di fattori: la scolarizzazione e la presa di coscienza che l’istruzione era veicolo fondamentale per il progresso individuale; l’omogeneizzazione amministrativa e militare; l’accumulo e la concentrazione di capitali; l’industrializzazione, che trasformò radicalmente la struttura del paese; la creazione di infrastrutture viarie che facilitarono scambi e comunicazioni; le migrazioni interne verso le grandi città, da tutto il Sud e anche da regioni del Nord; la partecipazione alla vita dei partiti e dei sindacati, che non fu solo politichese, sindacalese e brogli, ma anche promozione culturale e sociale; la diffusione della televisione, che riversò un fiume di italiano in case in cui si parlava quasi sempre dialetto.

Nel 1954, l’Italia era un Paese povero, ancora gravato da un alto tasso di analfabetismo: la chiamata al servizio di leva e il viaggio di nozze erano per molti le uniche occasioni di spostarsi dal proprio luogo di nascita. Un apparecchio televisivo costava più di 215.000 lire (quando un buon stipendio “statale” non superava le 80.000): pochi potevano permettersene l’acquisto. Ma i bar, le osterie, le sezioni di partito trasformarono la visione in un’occasione di incontro sociale, con il televisore posto su un trespolo.

Negli anni del monopolio RAI (1954-1975) la televisione è stata una «scuola di lingua nazionale». Basti pensare alle inchieste di Mario Soldati, Ugo Zatterin, Sergio Zavoli, ai varietà di Falqui e Sacerdote, ai riadattamenti (si chiamavano sceneggiati) televisivi di romanzi come «Umilianti e offesi» (Dostoevskij), «I Promessi Sposi» (Manzoni), «La cittadella» (Cronin), che fruttò ad Alberto Lupo uno dei primi casi di divismo clamoroso. Il giovedì sera i cinema interrompevano la proiezione del film per trasmettere «Lascia o raddoppia?», le famiglie benestanti invitavano i vicini di casa a vedere «Lascia o raddoppia?»: immagini di un’Italia che anche in questo modo si accostava al possesso della lingua nazionale. Nel 1961 Umberto Eco scrisse una ingenerosa «Fenomenologia di Mike Bongiorno», censurandone tra l’altro l’uso di un «basic italian» quasi banale. Ma il presentatore televisivo è stato uno straordinario insegnante di lingua, grazie a lui milioni di persone si sono accostati a un italiano facile e chiaro.

All’alfabetizzazione contribuì il grandioso progetto di Telescuola, diretto a consentire il completamento del ciclo di istruzione obbligatoria ai ragazzi residenti in località prive di scuole secondarie. Progetto innovativo, con 4 milioni di ascolti giornalieri, che tra l’altro promosse la conoscenza della storia dell'arte, con metodi enormemente più efficaci di alcune odierne trasmissioni televisive, dove chi parla propone al pubblico immagini di dipinti accostati per vaghe analogie tematiche, senza alcun approfondimento di tipo storico o stilistico.

Un signore affabile, bravissimo con schizzi e bozzetti da lui stesso segnati su una lavagna a grandi fogli, il maestro Alberto Manzi, tra il 1960 e il 1968, con una trasmissione in onda dal lunedì al venerdì in orario preserale, insegnò a leggere e a scrivere a circa due milioni di italiani totalmente o parzialmente analfabeti. Autentiche lezioni di lingua, che tenevano incollati davanti allo schermo operai, contadini, artigiani rientrati dal lavoro e casalinghe.

Al momento attuale il quadro è profondamente mutato. Gran parte degli italiani parla italiano e non è pensabile che diminuisca la percentuale di italiani in grado di esprimersi correntemente in lingua. Riceviamo dieci anni di istruzione scolastica obbligatoria, che è il livello dei paesi civili ed evoluti; ed è cambiata la società, in cui la comunicazione in lingua svolge un ruolo fondamentale. Secondo le statistiche, il 94% della popolazione italiana è oggi in condizione di capire e usare l’italiano, ovviamente conservando modi regionali e senza abbandonare il dialetto nativo.

Per la prima volta nella nostra storia siamo un paese linguisticamente unito, nel quale la lingua rappresenta un fattore portante dell’identità nazionale. Siamo nel migliore dei mondi possibili? No, molto resta da fare. Oggi urgono altre questioni, è necessario interrogarsi sul tipo di italiano che sentiamo e leggiamo intorno a noi, nei contesti comunicativi più vari. Sono frequenti, nei media e nell’opinione comune, le constatazioni sull’uso maldestro o inefficace della nostra lingua, spesso accompagnate da toni di deprecazione per l’«imbarbarimento» a cui la stessa sarebbe oggi sottoposta.

La società cambia, la lingua (anche quella televisiva) ne rispecchia i mutamenti. Parleremo ancora di questi temi.

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