Ostaggi Selvaggi
«Il mio folle viaggio con Toti & Tata»
Alberto Selvaggi racconta l'epopea post-scolastica del 1978 con Emilio Solfrizzi e Antonio Stornaiolo. Ma loro gli rispondono con una lettera monitoria
Vorrei capire a che titolo ti presenti in questa rubrica di interviste, essendo autore della stessa. Oltretutto mi impressiona trovarmi di fronte a quello che in teoria sarei, cioè a me stesso, idea speculare di ciò che ti riflette.
«Ci conosciamo. Mi chiamo Alberto Selvaggi come te. Ti abito da tempo e ne soffri il peso. In questo caso tuttavia non avevamo alternative: sono testimone e protagonista di un’esperienza leggendaria della controstoria barese. Un viaggio allucinogeno, demenziale e barbonesco che compii con due altri eroi del fallimento e Toti & Tata al tempo in cui ancora Toti & Tata non erano. Vidi cose che voi umani non potreste immaginare nemmeno».
Parla: guardo i tuoi occhi precipitati di serpente e mi sgomento.
«Era il 1978, settembre, a quanto sembra. In quell’era di cabine telefoniche e topini spetazzanti in impennata sulla Vespa tutti noi della ciurma debosciata frequentavamo a Bari il Convitto Nazionale “Domenico Cirillo”, che finora nessun titano ha sollevato dalla via omonima. Chi tra gli stessi banchi del liceo classico, nell’ala entrando a destra, chi allo scientifico, sinistra, secondo un gemellaggio siglato tra due classi con inapplicabile spirito calcistico. Tata Stornaiolo si chiamava già così come lo bollò il compagno Landonio o Lando (replicante in toto di Buzzanca) durante una lezione neutralizzata con l’atarassia. E la stessa madre aveva smesso di nominarlo Antonio col resto del parentado di Napoli, città dalla quale proveniva. Emilio Solfrizzi passava ancora per Emilio, o “Rilio”, al peggio Enerchia, come lo avevo ribattezzato io».
Vai al dunque, non ammenarti pippagioni su sciocchezze.
«Ok. Tata, riccio e sfasulatissimo, amava tale Paola, compagna di classe fine, figlia di un dirigente catalitico Fiat, nordista, non terronica come noialtri protagonisti dell’epopea che vado a dire. La pulzella, che Stornaiolo sbaciucchiava anche durante le lezioni di filosofia, come testimonia una fotografia, dopo il primo liceo tornò con i suoi a Brescia, in 131 certamente, dato che il genitore espelleva quel modello d’auto anche tossendo, tante ne aveva. Tata, povero più dei restanti tapini non ancora diciottenni, offrì allora la mela del serpente: andiamo tutti a trovare Paola a Brescia, devo riconquistarla perché la corteggia un settentrionale che non mangia i polipetti, i suoi sono ricchi e ci danno un appartamento sfitto, tutto per noi, indipendente».
E i soldi per partire? Tu in quel periodo arrubbavi alla Standa e all’Upim per divertimento donando ai ricchi e ai poverelli niente, ma gli altri come fecero?
«Alcuni avevano lavorato come uscieri o posteggiatori in Fiera. Facemmo cassa comune anche per mantenere a Tata le pezze sul sedere molliccio che aveva. Formazione: io, Toti-Enerchia, il campano parassita naturalizzato barese, Lando, eruttatore e petomane compulsivo nato con la luce rossa in testa, e Gaasc’, fichetto. Cinque, quindi».
So già che vuoi saltare un passaggio familistico.
«No no, lo dico. Procedendo da casa alla stazione incontrammo mio fratello Valeria».
Eh, e che disse Valeria, insomma, tuo fratello?
«Quanto segue: “E vi portate appresso quello? Alberto? Poveretti”. A sera tarda salimmo su un vagone denutrito, seconda classe, o terza, o quarta, o nona se esisteva. Metà senza biglietto, secondo tecnica barese, e così per giorni sui treni, sempre. Dopo il Bari-Milano, con sederi piallati come ciottoli di giardini zen e aliti fognanti di sigarette MS rubate da Enerchia al padre in due stecche, su una caffettiera dall’espressione maniaco-depressiva guadagnammo Brescia. Emilio calzava scarpe nere da morto anni Sessanta coi laccetti, Lando le Timberband imitazione delle Timberland e gli altri espadrillas fetenti: le mie, trafugate dal negozio trendy Fruit of the Loom originario a Bari in via Principe Amedeo fuggendo dianzi a lu commesso, di un multicolor a righe. Paola ci accolse col meritato spregio consegnando le chiavi del piano rialzato, nostra reggia. Aprimmo, i muri c’erano in effetti, ma poi più niente. Nessun mobile né sedie. Nudità completa. Manco uno straccio da avvoltolare a mo’ di cuscinetto. Enèl nisba, pertanto ci procacciammo le candele. Dormimmo per giorni sul pavimento freddo, stringendoci nei giubbetti sottili come placente, perché al Nord all’epoca la temperatura era già scesa. Nessuno s’era portato dietro manco un filo d’erba. Di notte qua e là dai giacigli levavansi vampe di sfiati deretaneschi appiccati con gli Zippo, sì che l’aere già pesta di fumo di truciolari MS s’incancreniva ulteriormente. E non escludo che negli angoli bui di quella tomba con finestre, taluni, piagati dagli stenti, per sfogo si diedero a parkinsoniani smanettamenti vergognevoli. Si viveva in stato vigile perpetuo: le cinture marrone di kempo del gruppo, Landonìe e Solfrizzi, sovente e sanza preavviso sfioravano nasi e tempie dei compagni con colpi aerei, talvolta fallendo: “Ahia! E che c… Emi’!”. A imitazione dei padri del deserto ci nutrimmo di pan plastico sfarinato nel latte a guazzetto, mentre l’infido Tata scroccava cene in famiglia dalla sua Giulietta. Durante la prima, ingozzandosi di pollo e insalatina, stipò un ossicino molesto sotto il labbro superiore tutta la sera, per attenersi al galateo. Finché io, sfavillante nella famosa “maglietta cerotto”, denaturata dal rosso originario per l’abuso in quella tinta, scatenai all’alba la rappresaglia meridionalistica devastando i carrelli della spesa lasciati all’ingresso dei market dai bresciani ingenui. E organizzai corse su rotelle scandite da vocalità tarzaniche baresi».
(Alberto Selvaggi in una foto dell'epoca)
Dubito che tali espressioni di arte vandalica futurista possano venire comprese.
«Sì lo so, anche Toti & Tata, che ho preavvertito di ‘sto pezzo, mi hanno vietato di citare episodi irriferibili. Ma queste sono innocuità che non ledono. Ci sollazzammo vomitando in una “indianata” al vino acetico, dato che la Peroni non si trovava nei pressi. Ma il disagio nella convivenza alimentava i conflitti. Solfrizzi s’era portato appresso, oltre all’unica camicia con colletto aerospaziale, un mangianastri al-ralenti. Mi piantò nelle recchie Deep Purple e Led Zeppelin cercando consenso: senti l’attacco, Alberto, senti l’attacco!, ripeteva serrando la manotta a casco di banana e seguendo con il pugno il ritmo. Profferii: Emi’, hai rotto con ‘sti Dipppe Pppurple, li ascoltavo a undici anni e già a 12 erano roba superata. Egli s’impietrì menando giù un muso da mulo martinese. Non poteva reagire perché ero considerato una specie di intoccabile, non so perché. S’allontanò a falcate. Gaasc’, incauto, si mise in mezzo: mè Solfrizzi, smettila di fare l’offeso al cacchio! E Solfrizzi la smise abbattendolo con un calcio di kempo allo sterno che fece esalare al PoveraGaasc’ un “ooof” da fumetti».
L’onda lunga di Bruce Lee non si era ancora spenta.
«Certo. Dopo la cattività bresciana e un processo al veleno contro il turlupinatore dai capelli ricci, nonostante le orbite da campo di concentramento e il dimagrimento programmammo la soluzione finale del “Viaggio senza soldi all’infinito”».
Con il denaro che non avevate?
«Certo, come suole lo Stato italiano. Ognuno trafugava spiccioli per un cremino mucolitico, per una rosetta. Vennero vietate le colazioni, razionati i pasti. La faccio breve perché non basterebbe un libro: ci spostammo a Bologna e allo scalo, siccome niuno portava con sé manco uno scopino da cesso per lustrare i canini, lanciai il metodo dell’igiene dentale con dentifricio sul dito indice e acqua delle fontanelle, che furono per noi anche docce ferroviarie en plein air. Vagolando come puzzole pugliesi tenevamo ormai lontani i clochard stessi. Espletavamo i bisogni elementari come capitava. Landonio, odiato per l’abietta capacità di adattamento, era l’unico che, scureggiando e ragnando fra sé e sé, dormiva tranquillamente accanto ai barboni e ai malati mentali nelle sale d’aspetto di stazioni dove nessuna onlus ci offrì brodaglia tiepida. Contaminammo anche Ancona, Firenze, Pescara, se ben rimembro, facendo di fratello cielo un tetto e di sorella strada un letto. A Roma raggiungemmo un nostro eroe barese, Pietro, con il quale Toti e Tata, e non io, scapicollavano a tutta birra dal ponte di viale Unità d’Italia in Fiat 500 Giardinetta e derapando a destra verso Largo Ciaia lasciavano cappottare il mezzo, uscendo dallo sportello libero viepiù ebeti. Era gioia di vita, esistere apolitico, non-pensiero che nel divertimento puro si libra. Facemmo tappa anche da Memi, la bellissima cugina bruna di Emilio, concupita da tutti e che tutti schifava in quanto infimi. Il padre ammiraglio, interdetto, nella villa altolocata dopo Prima Porta ci lasciò divorare nutrimento in cucina, porto da una schiava di non so quale continente. Ma mentre tornando verso l’Urbe discendevamo ancora la collina, venimmo inseguiti da mastini evasi dalle residenze ricche. Io e Tata, volando sui nostri mulinelli, staccammo tutti, perfino le gambe isteriche da trampoliere dellu Landonìe, forse superando Ostia in un battito di ciglia. Al rientro in treno nello scompartimento a otto posti litigammo tutti contro tutti giurando di evitarci financo a scuola per un mese: “Appena arriviamo a Bari, ognun per sé”. Emilio al solito fumò di seguito quattro sigarette. Lando, sicuramente sognando fumetti porno horror Jacula e Terror, mi si accasciò addosso poltrendo con espressione acre e respingente. Lo isolai, come prova una fotografia che ricordiamo tutti ma è andata persa, frapponendo tra la mia spalluccia e la sua mascella equina fazzoletti Kleenex. Ma soprattutto, mentre al risveglio egli dissestava a tuzzi i legni prostatici del vagone, continuai a scrivere il resoconto coloristico della nostra impresa. Su un rotolo di carta igienica delle FS con Bic nera. Il mio primo, inconsapevole reportage giornalistico. Identico nello stile, nel lessico a ciò che legge oggi chi mi legge. Gaasc’, divenuto uno stimato medico, conservò a casa in un astuccio il reperto per decenni. Pare sia svanito adesso. Ma nell’anima resta, affresco cartaigienico del meraviglioso viaggio di una vita».
LA LETTERA MONITORIA DI TOTI E TATA - Spett.le «Gazzetta del Mezzogiorno»,
Noi sottoscritti, sig.ri Emilio Solfrizzi e Antonio Stornaiolo, in merito al preannunciato articolo - peraltro non autorizzato - del Dott. Alberto Selvaggi, inerente un nostro viaggio giovanile, prendendo le distanze da qualsivoglia dichiarazione che apparisse lesiva della nostra reputazione, in via preventiva desideriamo significare che ci riserviamo di adire le vie legali e sollecitare le competenti sedi, ove descrizioni distorte della realtà incidessero in modo negativo sull’immagine offerta nel corso degli anni al pubblico che ci ha seguito, come Toti & Tata e singolarmente.
Tanto dovevamo,
Emilio Solfrizzi
Antonio Stornaiolo