la recensione del saggio di Iarussi

Amarcord Fellini, il geniale bugiardo in cerca della Grazia

Mons. Francesco Cacucci*

L’arcivescovo di Bari-Bitonto legge “L’alfabeto di Federico”. I temi del grande regista nato cent’anni fa

BARI - Quando l’amico Oscar Iarussi, facendomi dono del suo splendido Amarcord Fellini. L’alfabeto di Federico (il Mulino, Bologna 2020), mi ha proposto di farne recensione «nel segno del comune amore» per il genio cinematografico riminese, ho letto quasi «tutto d’un fiato» l’avvincente libro, memore degli altri due suoi precedenti contributi «felliniani»: L’infanzia e il sogno - Il cinema di Fellini e C’era una volta il futuro. L’Italia della Dolce vita.
Com’è naturale, mi ha accompagnato una sorta di precomprensione della personalità e dell’opera del Maestro, preferendo attraversare trasversalmente il fascinoso saggio di Oscar.

Parto dalla domanda: dove ha imparato Fellini a fare film? Pare infatti che egli non abbia frequentato alcuna Scuola, né italiana, né estera. Eppure una scuola – e ben severa – l’ha fatta: basta scorrere alcuni dati della sua biografia, puntualmente richiamati dal nostro Autore nei capitoli «Infanzia» e «Urbe». Da caricaturista a vignettista, a gagman, Fellini si affaccia finalmente al cinema con l’aiuto di Aldo Fabrizi, fino al periodo delle (anche grandi) sceneggiature del periodo neorealista. Sono ben tredici anni di tirocinio cinematografico, per apprendere la tecnica, ma soprattutto per affinare la sua capacità, che diverrà prodigiosa, di «tradurre il pensiero in immagini».
Come non condividere la convinzione di Iarussi che, per i cineasti di tutto il mondo, «l’Italia è un mito in virtù delle immagini di questa provincia affabulata da Fellini»?

Ed ecco limitarmi, scorrendo le pagine del libro, a qualche abbozzo di «arco tematico» dell’opera felliniana, solo accennando all’indiscutibile ambito della sua grande arte. Già in Lo sceicco bianco c’è tutto Fellini, artista di grande fantasia, dallo sguardo acuto e critico, ma anche bonario e sorridente, sull’uomo e sul mondo che lo circonda. È con questo film che comincia il sodalizio col magnifico e indimenticabile Nino Rota. Iarussi dedicherà a «Nino, l’amico magico» uno dei capitoli più intensi: «Non si riesce a pensare ai film di Fellini senza avere nella testa e nel cuore le note di Nino Rota, il maestro milanese, barese d’adozione», che «già direttore del conservatorio di Bari, riconoscerà una precoce vocazione simile alla propria in un quindicenne di Molfetta (Riccardo Muti)».

Attraverso l’interrogativo de I vitelloni e La strada il regista riminese fa un notevole balzo in avanti: per una misteriosa realtà la bontà della vita non resta mai sterile. Nella piccola prostituta del successivo Le notti di Cabiria, ritorna, nonostante la crudezza delle delusioni, un nuovo senso della vita, forse una nuova speranza, meno ideale, ma più realistica e verace.

E siamo a La dolce vita, dove la ricerca dei film precedenti diventa esplicita. A sessant’anni di distanza, cessati i rimbrotti e i tabù dell’epoca, efficacemente ricordati nel libro, mi piace riportare un giudizio del gesuita Nazareno Taddei, mio maestro nell’arte della critica cinematografica, all’indomani dell’uscita del film, che non solo «resterà nella storia del cinema e al cinema aprirà nuovi orizzonti per la sua poeticità (...), ma ha fatto col cinema un’opera imponente di pensiero e di pensiero perlomeno naturaliter cristiano». Fellini apre il film con la sequenza del Cristo e lo chiude con quello di Paolina, la ragazzina che il protagonista Marcello aveva già incontrato in una «misera trattoria rivierasca». «Cos’è la Grazia – ha risposto Fellini alla domanda rivoltagli a bruciapelo da padre Taddei – se non Paolina che tu non capisci e la rifiuti; e lei sorride e ti dice: “Va pure! Mi troverai sempre ad aspettarti”?».

All’incomprensione specie di una parte del mondo cattolico Fellini risponderà con Le tentazioni del dottor Antonio e 8 ½, dove l’aspirazione si arresta alla semplice comprensione umana. Con rara profondità Iarussi azzarda: «Fellini anticipa la condizione post moderna senza però compiacersi della “debolezza” del pensiero».
E veniamo a Giulietta Masina. Dopo Gelsomina e Cabiria diventa Giulietta «degli spiriti», nel film della nostalgia, e poi «dolce Giulietta» nel circo televisivo di Ginger e Fred. L’immagine della Masina che «col braccio alzato – il rosario serrato tra le mani – saluta Federico il giorno della sua morte resterà, forse persino più di tante immagini cinematografiche», nota il nostro Autore nel capitolo «Giulietta», svelando le pieghe della sua rara sensibilità.

Da I clowns, dove il circo è emblema della vita, al magnifico Roma, allucinato e allucinante, ritroviamo in Amarcord quasi una raccolta di cose già dette. Attraverso l’intervallo tematico di Prova d’orchestra, dove ciascuno vive egoisticamente, ignaro dei pericoli che incombono, Fellini offre una visione sorridente ma sostanzialmente triste, per non dire pessimistica, con La città delle donne, forse facendo un ulteriore passo nel mondo della nostalgia rappresentato dalla Paolina de La dolce vita. L’arco tematico continua nel disegno pessimistico di E la nave va (e di Intervista), perché sembra che per i valori che Ginger e Fred emblematizzano non c’è più posto nel mondo attuale del consumismo e della TV.

E siamo all’ultimo Fellini: La voce della luna, «un film di certo senile», nota Iarussi. Sembra che il suo arco tematico sia concluso proprio dal regista, che evita di definire che cosa siano le voci e che cosa dicano. Ma esse rimandano a una realtà superiore, che è d’importanza fondamentale per la vita dell’uomo. Il grande cineasta lo dice a suo modo; ma lo dice.
Fellini, l’uomo bugiardone («Mai conosciuto un uomo più bugiardo!» diceva affettuosamente Alberto Sordi), muore in pace con quel desiderio di Paradiso che «forse esiste al cinquanta per cento», come fa dire al parroco del suo ultimo film.
Auspico che il libro, fascinoso nello stile e nei contenuti, contribuisca a far scoprire Fellini alle nuove generazioni, alle quali, come Oscar sottolinea, «è quasi del tutto ignoto». Forse il suo maggior merito consiste nel far sopravvivere l’artista con la sua meravigliosa opera, capace di dare ancora, dopo decenni, brividi estetici, e anche di far pensare alla vita corrente di tutti i giorni illuminata da un profondo anelito di autenticità.

*Arcivescovo di Bari e Bitonto

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