Le testimonianze

Matera, alla nuova mensa dei poveri anche gli insospettabili: «Ho il Reddito, qui per sfamarmi»

Enzo Fontanarosa

La mensa «Don Giovanni Mele» ha aperto i battenti, e il pranzo si può consumare anche ai tavoli

MATERA - Non é ancora mezzogiorno, ma dentro l’ampio salone c’è già chi si è accomodato. Per lo più sono donne e, dagli accenti, sono dell’Est europeo. L’età varia, ma nessuna è sotto i 30 anni. C’è un anziano solo, altri uomini scambiano qualche battuta tra loro o sono persi nei pensieri. Arrivano immigrati subsahariani e maghrebini. Tutti si sistemano con ordine ai tavoli della Mensa della Fraternità, gestita alla onlus «Don Giovaninni Mele». È il primo giorno di apertura. Domenica, la cerimonia di inaugurazione, ieri i primi pranzi offerti a chi ne ha bisogno nella nuovissima struttura al rione Piccianello. Sorge poco distante da dove, prima, in uno dei locali della parrocchia di Maria Ss. Annunziata, venivano preparati e distribuiti i sacchetti con il pranzo d’asporto. Qui ora ci si può sedere, in un luogo confortevole, senza vergognarsi di fare la fila per strada. Lo spirito è fare comunità. Giulia Mele è la sorella del compianto parroco cui è intitolata la struttura. Ha 89 anni e una forza e una energia straordinarie ed è tra i volontari più presenti: «Sono felice di vedere il sorriso in chi è arrivato. Ci sono volti conosciuti e non solo», dice mentre continua a sistemare i tavoli scambiano qualche parola con gli ospiti. Altri ne stanno entrando. «Prendete i vassoi, seguite la fila al bancone del self service. È il primo giorno, dobbiamo tutti abituarci», esorta Maria Rosaria Di Muro, direttrice e amministratore della onlus, mentre anche lei si dà da fare. Ordinati, ritirano il pasto: riso e lenticchie, parmigiana di zucca, cicoria alla contadina, frutta fresca e anche il dolce. In cucina c’è lo chef Giuseppe Carbone, coadiuvato da suo figlio Christian, Enzo Cataldi e Paola Fiore. «Siamo attrezzati – dice il cuoco – anche per le esigenze di chi ha intolleranze alimentari, l’importante è che ci informino. Abbiamo un pensiero pure per i musulmani, non serviamo carni suine».

La fila al banco scorre veloce; Antonella Abroseccha è dall’altra parte: «È il terzo anno che faccio volontariato, una scelta fatta ai tempi del Covid. Sentivo di voler aiutare chi avesse più bisogno».

La sala va riempendosi, ma non c’è confusione. Ai tavoli si parla sì, ma è un brusio. Un uomo sulla sessantina chiede di poter avere un altro dolce, prima di andar via: viene accontentato, ha uno sguardo lieto. Un altro si dirige a un tavolo, ma non pare altrettanto felice. «No, non è per il cibo», si giustifica. «Non mi piace che lo si debba consumare qui. Ora la mensa non funziona più per l’asporto», lamenta. Gli diciamo che così si vuole far socializzare gli ospiti. «Non mi va – riprende –. Preferivo prendere il cibo e andare via, decidendo se mangiarlo per pranzo o tenermelo per la cena». Ha superato la mezza età, ci dice di essere solo: «Vivevo con mia madre, ma da tempo lei non c’è più. Avevo un lavoro e l’ho perso. Mi sono dato da fare impegnandosi in una impresa personale però, col covid, è finito tutto male. E ora vengo qui. Non ho neppure più la forza di cercare lavoro: è tutto un “no” o “mi spiace”. Vivo col reddito di cittadinanza». Distoglie lo sguardo. Si dedica al suo pasto. Ci allontaniamo, lasciandolo tranquillo.

A fine servizio saranno stati circa 50 i commensali: la metà della media degli gli ospiti abituali. Ognuno si premura di chiedere dove lasciare i vassoi, prima di andarsene. «Mettete qui, ci pensiamo noi», dice un’altra volontaria. Si sta per chiudere, sono quasi le 13. Si mette ordine. Dietro la porta-vetrina, appare una sagoma. «Ma sì, che entri», concordano i volontari. Il ragazzo, africano, i dreadlock raccolti in una coda, riceve il vassoio. Ringrazia. «Domani, però, arriva in orario», è il rimbrotto benevolo. Abbozza un sorriso e si gusta il pranzo.

Privacy Policy Cookie Policy