Lessico meridionale

Il diritto per i poveri a ottenere giustizia

Michele Mirabella

«Ci sarà pure un giudice a Berlino» è una famosa battuta teatrale che, fuori del suo contesto, annovera una metafora esclamativa: ci sarà pure un tribunale equo anche per i poveri, i diseredati, i lontani dal potere cui il trono restituisce sotto forma di protezione regale il diritto ad ottenere giustizia. Insomma, per dirla con Lope de Vega, «il miglior giudice è il re». Questo, quando i giudici erano inaffidabili e corrotti o nel caso i giudici non esistevano e ad esercitare nei tribunali fossero gli stessi governanti contro di cui, talora, era costretto a ricorrere il suddito. Ma i cittadini hanno creduto che quel nome, Palazzo della Ragione, che battezzava le case della Giustizia, fosse a buon titolo concesso per quella parola piccola e solennissima: Ragione. Quale che sia stato il motivo etimologico di quell’appellativo, io l’ho sempre trovato rassicurante. E, infatti, quando il giudice e la giustizia fanno il loro lavoro in autonomia e senza impedimenti o attentati alla loro opera o condizionamenti di sorta, la Libertà vive serena. Lo diceva, con altre più eleganti parole, Robespierre. Più eleganti, certo, di queste che seguono.

Una storiella corriva, ma gustosa, girellava per le facoltà di Giurisprudenza ai tempi miei e, credo, girelli ancora:

Lo studio di un avvocato famoso. Protagonisti: L’avvocato famoso e il cliente.

L’avvocato (consultando la documentazione del procedimento legale in corso) -

«Qui, caro mio, abbiamo ragione noi, e, indubitabilmente, li battiamo»:

Il cliente (rincuorato)- «Bene, avvocato!»

L’avvocato (proseguendo la lettura) - «Qui hanno ragione loro e ti battono».

Il cliente (preoccupato)- «Ahia!»

L’avvocato (proseguendo)- «Qui, caro mio, abbiamo ragione noi e, indubitabilmente, li battiamo»:

Il cliente (soddisfatto e rincuorato) - «Meno male!»

L’avvocato (proseguendo)- «Qui, però, hanno ragione loro e ti battono».

Il cliente (ancora più preoccupato) - «Ahia!»

L’avvocato (proseguendo la lettura, punto per punto) - «Ma, qui, caro mio, abbiamo ragione noi, e, indubitabilmente, li battiamo».

Il cliente (soddisfatto e rincuorato, ma tentennante) - «Meno male!»

L’avvocato (proseguendo)-

«Ahia, ahia! Qui hanno ragione loro e ti battono».

Il cliente - «Avvocato, scusi, mi spieghi una cosa. Ma perché quando li battiamo stiamo insieme e quando vincono loro, battono solo me?»

A dire il vero il famoso avvocato non diceva «battere», ma usava una locuzione plebea che era praticata dopo aver frequentato certe scuole severe (sezioni maschili) o dopo il casermaggio della naja, impareggiabile apprendistato di maschio idioma. La locuzione si articolava sul verbo «mettere» (dove, s’intuisce) o sulla variante concettuale connessa di «fare un c. così» con accessorio di gestualità da bottiglieria. E, a seconda del torto o della ragione, l’avvocato individuava l’appartenenza del «c.» Che, comunque, non era, mai suo.

La storiella riassumeva e, ch’io sappia, riassume la considerazione che in Italia si ha del rapporto con gli avvocati: un misto di ineluttabile fatalità che ci costringe a tenere con essi relazione e scetticismo rassegnato sull’efficacia della loro opera. Spesso impeccabile, peraltro. Quando «si va dagli avvocati», è opinione popolare, si è già in ansia. Mi viene in mente la opinione di J. K. Jerome, scrittore umoristico inglese, che diceva: «Se un malnato mi ferma per strada e mi intima di consegnargli l’orologio, io tento di difenderlo anche colluttando e chiamando aiuto. Ma se un tale mi ferma per strada e proditoriamente mi impone di cedergli l’orologio, minacciandomi, in caso di resistenza, di ricorrere in tribunale e dagli avvocati, io glielo consegno immediatamente, ringraziandolo e scappo via, convinto d’essermela cavata a buon mercato».

Nella terra di Cicerone, si sono affermati troppi azzeccagarbugli. E, nei secoli hanno affollato, costoro, le sale del potere, non solo i fori. Il sospetto c’è che lo sterminato giacimento di leggi in cui si smarrisce, con il cittadino, anche il senso della giustizia, sia sedimentato da una democrazia rappresentativa rappresentata da troppi avvocati e uomini di legge. I quali medesimi sono sbigottiti dall’immensità della fatica di interpretare le stesse leggi che hanno inventato. È solo un timore. Per non parlare delle procedure e dei metodi che sembrano aver eretto una ciclopica armatura per sorreggere l’edificio della vita collettiva e che molti temono che tenga in piedi solo sé stessa. Dio ne guardi, naturalmente, dalle critiche distruttive e a scopo di qualunquismo disperato: è solo la preoccupazione civile che ci fa allarmare. Si deve alla magistratura, peraltro, il massimo della gratitudine che operano perché un giudice ci sia dovunque, dovunque ci sia libertà e democrazia. Questa s’allerta nel contemplare il mistero doloroso dell’interminabile lavorio che implica il ricorso ai tribunali, la lunghezza del corso della giustizia, le troppo frequenti vicende oscure in cui il cittadino si sente dire: «Qui ti battono loro» (pensa tu, o lettore, alla variante greve). Loro chi?

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