Lessico meridionale

Perché le parole sono importanti

La massa degli ubbidienti serve; i potenti esercitano la libidine del comando; i briganti si divertono più di tutti

Riflessioni ferragostane: «Loro mi vogliono far frustare se dico la verità. Tu mi vuoi far frustare se dico la bugia: va a finire che un giorno sarò frustrato perché sto zitto». Così Shakespeare nel Re Lear.

Le parole sono importanti, spesso decisive. Dante onomaturgo, coniatore di parole, le cura: non abbandona al destino ciò che inventa. Se ne assume le responsabilità. In tempi recenti e brutali, ma sempre del presente storico, Berlusconi escogita Forza Italia: prende una per una due belle parole, messe insieme diventano un partito. E generano anche parole brutte come forzista. Non è colpa di nessuno, funziona così. E il Cavaliere lamenta un sapore negativo del neologismo e chiede di chiamare i suoi iscritti «azzurri». Spiacenti: la parola è già occupata dagli sportivi: meglio non fare confusione. Mussolini accettò perfino l’orribile e menagramo «Sansepolcristi», dal toponimo milanese indicante la piazza che cullò lo squadrismo. Prima di inventare un partito è prudente azzeccarne il nome.

I nomi. «Nomina sunt consequentia rerum», sentenzia Giustiniano e intende ordinare la materia delle donazioni. Dante cita le Istitutiones per sentenziare d’amore, parola cui non possono corrispondere che dolcezze. E i Latini avvertono: NomenOmen, nel nome il presagio. È noto che Cicerone nella contesa legale contro Verre si accontentò di citare il nome dell’avversario: in latino voleva dire porco. Finezze estranee alle moderne contese: si da direttamente del maiale a qualcuno. Più difficile prelevare dalla contesa politica l’insulto. Troppo stagionato «fascista». Qualcuno usa ancora pateticamente «comunista» convinto di offendere. Si potrebbe per questa intelligenza mutuare ancora dal latino: Lucus a non lucendo, «si chiama bosco perché non vi penetra la luce.»Intelleghentia a non intelleghendo!

I lettori intelligenti, cioè tutti, hanno colto il mio continuo heri dicebamus, questa specie di domino per cui l’incipit d’ogni periodo s’ispira alla parola conclusiva del precedente discorrere.

Intelligenza, dicevamo. A tutti sarà capitato di sentir dire dai professori, non a noi direttamente, s’intende, ma ai nostri genitori o a chi ne faceva le veci: «È intelligente, ma non si applica». Non mi è mai capitato di sentir dire il contrario: «È un cretino totale, ma si applica moltissimo». L’avrebbero bocciato senza pietà. Bocciavano, comunque, anche gli intelligenti scapestrati e renitenti, ma con più soddisfazione. C’era, poi, il limbo degli studenti che si applicavano pur essendo intelligenti. Erano un po’ tristi e consideravano gli altri molto più furbi.

Prezzolini segnalava tra gli Italiani un ingente gruppo di furbi, anzi sosteneva essere quasi la metà della popolazione a giudicarne i caratteri sommari. La furbizia è talento scemo e questo può sembrare, a torto, un ossimoro. Scemo nel senso di manchevole. L’Italiano è furbo perché nella sua anima latita il senso della comunità e, per questo, la sua intelligenza è lacunosa. Il furbo svicola, arranca, taglia per scorciatoie anche in campo morale, non ha senso dello stato e considera la legge un limite allo sforzo arrogante del suo ingegno arbitrario. Chi intercetta la nascosta e rancorosa volontà dei furbi e li sdogana, periodicamente, in Italia ha fortuna politica. Se non si ferma alla jaquerie qualunquista, può dire con Mussolini: «Governare gli Italiani non è difficile, è inutile».

Mussolini fu un epigrammatista involontario. Zelanti caudatari riempirono i muri d’Italia di suoi motti, invettive o incitamenti. Non ero nato ai tempi biechi, ma, bambino, mi toccò sorbire epigrafie e repliche di frasi solenni che sbiadivano sui muri. Mai nipotino di D’annunzio fu più prolisso e invadente. Si trova tutto e il contrario di tutto, com’è ovvio nei casi della propaganda e della demagogia. Ma, se non altro, non si smentì mai: lasciò ai tirapiedi il turpe compito di mettere delle pezze quando sbracava. Era avvantaggiato perché non aveva bisogno di comprare un giornale o di cambiarne il direttore per farsi assecondare. Lo chiudeva e basta. Oggi è più complicato. Il piacere di comandare resta più ingente di quell’altro, ma, almeno, il demagogo se lo deve guadagnare.

Se comandare è meglio che sacrificare a Venere, i potenti si sono prodigati a non farlo sapere in giro e hanno incaricato saggi e poeti d’insegnarci a diffidare del comando e questi, pontificando, hanno avvisato che al trono s’avvinghia il maligno, sentenziando che comandare è faticoso, difficile, pericoloso. Così i popoli si sono mantenuti prolifici e le stanze del potere sono state abitate da pochi, casti furbacchioni. Ma il Foscolo avverte «In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorte:i pochi che comandano, l’universalità che serve e, in giro, molti a brigare».

Dal che s’evince che, mentre la massa degli ubbidienti copula e serve restando all’oscuro della libidine del comando ben nota ai potenti, i briganti si divertono più di tutti. Fanno tutte e due le cose. Ma non ne parlano.

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