Lessico meridionale
La storia (inventata) del mio 1 meno meno
Il voto in greco per la pagina del Teeteto: dai ricordi alla discussione sulla «lezione» dei voti presi a scuola
Ebbi un incubo. Un 1 meno meno. Non era un malore, era un voto a scuola. Il «meno» ribadito era una doppia lineetta. Una delle sentenze quali erano i vecchi, cari voti che si usavano a scuola per dirimere dubbi sul profitto dell’alunno. «L’1 meno meno» del sogno fu inflitto ad una mia versione «dal Greco». Proprio non mi ci ero raccapezzato e ricordo che m’era venuta a noia perché non capivo granché e sapevo che quello che andavo scrivendo per scongiurare l’horror vacui’ del foglio bianco, erano pure congetture e fantasiose ipotesi che non avevano niente a che fare con quella pagina del Teeteto che ci era stata inflitta in una classe di liceo classico che radunava molti renitenti al Platonismo e alla sua bella lingua, me compreso.
Sbagliavo, adesso lo so e ho fatto pace con il Greco, tanto da meritare un 5+, ma ero abilitato a farlo in forza del diritto adolescenziale alle scapestrataggini. Mirabella Michele, come i suoi compagni di classe che non vado a cercare in face book, ma che preferisco ospitare nell’album dei ricordi, sanno bene ancora oggi, il Teeteto è il dialogo platonico che si occupa della conoscenza e di che cosa sia il sapere. Ricordando quel terribile «1 meno meno», commemoro anche un contrappasso erogato dalla professoressa al mio inciampo di conoscenza sulla pagina di un’opera sulla conoscenza, appunto. Mi emendai a stento da quel votaccio e feci voto di non meritarne più.
Avrei dovuto fare un voto alla Madonna, stante la mia ritrosia a diventare grecista. Riuscii a familiarizzare con i classici, amatissimi, peraltro, a digerire i verbi dell’ottava classe e l’inestricabile lessicografia greca. Oggi mi darei un voto risicato di sufficienza, diciamo un 6–. Il meno meno, diciamolo, è istruttivo. Sia se frustra la stentata sufficienza, sia se aggrava una catastrofe sotto il tre. In tanti discettammo, ragazzacci ribelli, intorno al sadismo della somministrazione numerica dei giudizi che oggi riconosciamo come metodo restaurato dal dibattito sulle metodologie pedagogiche della scuola moderna. Oggi, di tutte le scelte riformatrici dei tanti che si sono misurati nel dicastero della Pubblica istruzione (io la chiamo ancora così), questa del voto numerico è da approvare con un bel sette e mezzo. Ma che cosa sono quelle paroline ipocrite come distinto o buono? Termini di suggestione pedagogica, artificiosa prosa didattica. O che sarà mai, per esempio, un compito distinto? Distinto è un signore a modo, distinta una signora di buone maniere e condotta imperturbata dalle tentazioni della mondanità, ove non sia un modulo per un versamento bancario. Distinti sono i saluti nel formulario del codice delle buone creanze. Non può essere un comportamento scolastico e men che meno la traduzione del Teeteto. E anche quell’insufficiente o buono non esprimono compitamente la valutazione del pedagogo per la prestazione dell’alunno e sono generiche e insoddisfacenti. E aggiungo che non danno gusto.
Vuoi mettere la gioia di squadernare un bell’otto rotondo graffito sul foglio di protocollo con la matita rossa a petto di un «molto distinto» vergato pudicamente? E poi? Vogliamo considerare le numerose possibilità consentite dai numeri? Ancorché sia ristretta la scelta da uno a dieci, dobbiamo considerare le variabili erogate da miracolosi segni da posporre alle cifre. Appunto, ricordo il «meno», il «meno meno», balbettante reprimenda un po’ umiliante, addirittura il «meno meno meno» di qualche sadico sottile. Ma ricordo anche il consolante +, quella incoraggiante crocetta posta dopo un voto debilitante, una spintarella a far meglio, generalmente affibbiata con tenerezza a quelli che, pur non essendo particolarmente dotati, si sforzavano, si «applicavano».
Io, ero nella schiera di quelli che, pur essendo intelligenti, non si applicavano affatto, anzi, erano sfaticati, ero insignito dei meno o del mezzo al voto inferiore rispetto a quello che avevo meritato. E sì, perché il terribile mezzo voto poteva aumentare la sentenza in bene o aggravarla in male. Ai volenterosi si aggiungeva per premio, a me, generalmente si toglieva per castigo. Il cinque e mezzo faceva male. Era puro sadismo, come era ferocia vendicativa rimandare ad ottobre col cinque in una sola materia. Se ne parlava al bar, intorno al «calciobalilla», per settimane. Sui quadri il nome era macchiato di rosso dalla scritta: «ripara in» e seguiva la materia. L’untore, il segretario, scriveva con le anellate la formula che rispettava il mitico voto.
Adesso potrebbe ritornare. Rispetto il voto per auspicarne la rinascita: non parlerò male delle riforme della scuola, non possono pretendere di avere il mio voto, visto che non le conosco bene e mi asterrò dalle critiche per almeno un trimestre. Poi, però, dovranno rassegnarsi ad aspettarsi anche un 1–. Come la mia traduzione del Teeteto. A proposito: la storia dell’1 meno meno l’ho inventata, dunque, merita la verità: fui giudicato dalla brava Professoressa «Fantasioso, ma fuori tema. Non classificabile». Il Teeteto lo lessi all’Università. Tradotto in Italiano da mia sorella professoressa.