Lessico meridionale
L’arte di insultare fa uso del teatro
Meglio l’offesa generica che la volgarità: ma lasciamo da parte i termini del palcoscenico. «Qui viene la risata»
Il vezzo di approvvigionarsi nelle arti per litigare in politica è stagionato, Anzi, antico e proverbiale. Caligola escogitò il vezzo e, onde dimostrare la pochezza politica dell’ostile senato, concesse il laticlavio al suo cavallo per dimostrare ai patresconscripti che non valevano di più di un quadrupede per quanto imperiale. Oggi il personale della politica ricorre alla nomenclatura dello spettacolo: cominciarono col ricorrere al mansionario circense che resiste più del cavallo di Caligola e si cominciò con le maschere della commedia dell’arte (nobilissime) per approdare alla pagliacciata ed è, dunque, vero che con l’appellativo di buffone s’intende da sempre svillaneggiare il contendente politico.
Il buffone, in realtà, può essere degna persona, Persona comoediae dicono i Latini e merita il pane che si guadagna sulla sudata arena del circo dopo aver bazzicato per i palcoscenici di Europa dal medioevo in poi. Potrebbe offendersi, il pagliaccio, e ne avrebbe il diritto per la regola della reciprocità, se si sentisse chiamare «onorevole» ove non facesse ridere abbastanza il pubblico sempre più renitente all’umorismo. È il suo mestiere.
Resta il problema di come insultare l’avversario in Parlamento o nei numerosi arenghi multimediali in cui si agita la politica. Consiglio di restare, come dire, nell’insulto generico: funziona. Insultare, a rigore d’etimologia, non è sempre un’offesa. Origina da «saltare addosso». E, per evitare lo scontro fisico, si può farlo anche metaforicamente con stridenti parole volgari o con concessioni agli insulti affettuosi, diciamo così. È la storia che ha fatto in modo da evitare che si salti addosso a qualcuno per fargli del male e, per evitarlo, ha costretto le comunità umane in cammino nella civiltà della convivenza, ad escogitare formule idiomatiche sintetiche da poter usare come armi metaforiche: veloci, economiche, efficaci. E, se il tempo è troppo fuggitivo, ecco che si chiede il soccorso del gesto e della mimica: ancora più ratti e drammatici. In molte plaghe italiane è frequente il coinvolgimento, nella contumelia, di allusioni grevi alla dubbia morale delle donne in parentela. I contendenti fanno a gara di presunte, squallide volgarità.
Nell’andirivieni del traffico o nelle risse, fulminei gesti riassumono la congettura urlata che allude all’accusa volgare. Generalmente lo scambio di questa contesa evita le vie di fatto suggerite dagli spettatori sadici. A volte la fugacità dell’ora, impedisce contumelie argomentate: l’invenzione del gesto dell’ombrello o quella del dito medio spianato sostituiscono circostanziate e prolisse offese. Come le corna. Salvo che non le si spiani in una foto ricordo. Nelle foto ricordo gli Italiani dimostrano di credere alla persistenza della Storia. Un popolo così poco incline agli studi, anzi, alle «storie», come lamenta il poeta, nella grinza infinitesimale della fotografia, dispone la sua fiducia nel racconto tramandato. Ecco le posture solenni, i sorrisi formali, le pance ritratte. E le corna sinteticamente prolisse e allusive a drammi e farse. Si racconta che, come dileggio, furono escogitate dai Cretesi ed esibite a Re Minosse per ricordargli il bovino tradimento della moglie. Lo scherzo dozzinale di esibirle spianandole come aureole dileggiatrici dietro la testa del compagno di foto di classe, rimanda all’età della scuola dalle elementari in poi o alla camerata dove non ci sono Minotauri, ma zimbelli. Le abbiamo contemplate anche in occasioni più adulte. Stupimmo: era il teatrino della politica, spiegarono. Sbagliavano: era solo la politica del teatrino. Di Arlecchino, Brighella. Pantalone, Colombina fino all’impagabile, grottesco, «malincomico» Pulcinella. Le botte che si scambiavano in palcoscenico alludevano al ridicolo fuori luogo delle risse nei Palazzi del Potere.
Una stagionata abitudine vuole che si attinga al mondo dello spettacolo, ai suoi mestieri, alle sue maschere, alla sua arte per dileggiare. Si cominciò con «il teatrino della politica» umiliando, come dicevo, l’arte fine dei burattinai. Da ultimo il facondo direttore d’un quotidiano sportivo, per vituperare lo scandalo del calcio non calciato ha parlato di pochade. Egli s’incammina pigramente nella fila di coloro che, per denigrare qualcosa, l’assomigliano all’arte scenica. La pochade era un genere di commedia sbarazzina, intricata di vezzi e divertenti equivoci ambientata tra civetterie e malizie. Non aveva pretese d’arte, ma faceva ridere. Le liti del pallone no. Sono noiose. Provino con le risate registrate. Le usano coloro che non sanno far ridere per mestiere.
Una stagionata convinzione dell’arte scenica stabilisce che sia più difficile far ridere che commuovere. «Qui viene la risata» sentenzia l’attore alla lettura di buoni passaggi del copione oppure «Qui vengono risata e applauso». Generalmente, se l’attore è consumato, ci piglia. Tutti gli altri che parlano in pubblico vanno a casaccio e, se la risata viene, non sanno sfruttarla. Lettori! Applaudite!