Lessico meridionale
Un mondo sommerso da chiacchiere inutili
Non si riesce a trovare un solo motto che possa essere destinabile alla posterità solo frasi fatte e indecenze
Ma Giulio Cesare davvero pronunciò quella famosa frase «Tu quoque Brute, Fili mi!»? Anche tu Bruto, figlio mio! Quella constatazione, lo sgomento di Cesare che scopre che tra le pugnalate v’è quella rancorosa di un figlio adottivo che serbava sordide minacce vendicatrici di offese presunte o terribili, quando reali. E alcune lo erano state. Quel rantolo che esprime un’agnizione più crudele delle pugnalate, trafigge l’attenzione degli scolari cui si narra della morte di quel magnanimo e gli scolari si confermano nella pietà rabbiosa e nell’antipatia per quel bruto di Bruto.
Ingiustizie del luogo comune: il tirannicida che si sacrificò per la repubblica e a questa sacrificò il suo «amor» vacillante per il padre adottivo, denomina nell’uso tradizionale il più turpe degli assassini e dei violenti in genere. Ma torniamo alla frase solenne. Tutta studiata? Cesare arranca sanguinando fin sotto la statua di Pompeo per passare alla Storia scrivendone una pagina che è parte di una vera e propria sceneggiatura? Shakespeare fu il primo a capire il dramma che trasformò in tragedia. Forse con l’aiuto del Plutarco delle Vite parallele. E se lo ha fatto apposta, Cesare ha dimostrato di essere davvero il magnanimo di cui si narra e tramanda. E di conoscere il mestiere del politico di razza.
A scuola m’hanno sempre colpito le parole fatidiche, le frasi solenni, quelle espressioni icastiche che i manuali di storia ammanniscono agli studenti. L’almanacco delle citazioni rigurgita di proposizioni lapidarie riassuntive di vite spese per le Cause. Garibaldi fu il più sintetico, per esempio, con quell’essenziale «Obbedisco». Amaro, rabbioso, ma rassegnato. Più circonvoluto, ma commovente quell’incipit savoiardo di Vittorio Emanuele II: «Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia… eccetera». Mussolini studiò quel «Le porto l’Italia di Vittorio Veneto» rivolto al Re dopo la marcia su Roma. Non sono in grado di precisare se abbia usato il lei o il voi del regime a venire. Indimenticabile quel «Tutto è perduto fuorché l’onore» di Francesco I dopo la battaglia di Pavia, persa contro Carlo V, scritto alla mamma. Per non farla stare in pensiero aggiunse «e la vita che è salva». Il manuale trascura l’aggiunta famigliare. Mi sono spesso domandato, da ragazzino, come potessero queste grandi firme aver tempo per escogitare i motti con tutto quello che avevano da fare. I capi di oggi non offrono granché, infatti, troppo presi dal disbrigo degli affari, evidentemente. Ma, anche, vittime del tempo dell’universo informatico che non consente riflessioni e consultazioni di poeti d’occasione. Ma, soprattutto, permette al pubblico la liberatoria pernacchia per la quale la tempestività è indispensabile e in passato era impossibile. Infatti, i manuali non ne fanno menzione. Prendi i recenti scandali. Nel turbinio di parole che, a milioni, affollano l’universo della comunicazione, non si riesce a trovare un solo motto che possa essere destinabile alla posterità, solo frasi fatte e indecenze lessicali. E resta sull’arenile della quotidianità un repertorio di relitti fatto di mazzette, tangenti, regalie, cozze pelose, fondi neri, raccomandazioni, concorsi truccati. E scandali. I titoli ne abusano. Il generone se ne pasce. Latita.
E, continuando, degli amministratori, degli amici degli amici, del fritto misto dei politici. Ed ecco il rassegnato «Così va il mondo, compare mio», il sospiroso «È ora di finirla, mia cara» con la variante escatologica «dove andremo a finire?» e un ringhioso «Io lo sapevo che quando vincono le sinistre (o le destre, non cambia), avvocato mio...». Niente frasi memorabili, solo scampoli di chiacchiere: «Ma si sapeva, lo sapevano tutti» malizioso e codardo. Infatti lo «sapevano» tutti, sempre gli altri, mai noi. «Prima o poi doveva succedere» conclusivo fino al prossimo scandalo. E non abbiamo un Plutarco che lo nobiliti.
Ho consultato il dizionario etimologico alla voce «scandalo». La parola è viva nel latino tardo (scandalum) e significa impedimento, ma discende dal greco skandalon che significa, precisamente, «Pietra di inciampo, insidia». Una pietra che aziona il lessico biblico. Curioso questo inciampo, questo impedimento. Nella tradizione, ma, ancora oggi, non mancano pietre che vengono lanciate addosso alle «peccatrici», salvo in casi di miracolosi incontri, di macigni che varrebbe, piuttosto, la pena di attaccarsi al gargarozzo invece di arrecare scandalo (appunto), di pietre mancanti all’inferno per lastricare le sue affannate strade e sostituite da buone intenzioni, buone e inutili. Ma almeno una frase scultorea, una sola, potevano inventarla! I segni sono deprimenti: basta consultare il frasario volgare, plebeo e immondo usato dal pretendente alla Presidenza degli Stati Uniti, Trump, che si affanna nella campagna elettorale. Neanche Plutarco o Shakespeare potrebbero nobilitare quel linguaggio triviale. Basta una barzelletta sconcia. Non la insegneranno a scuola. Spero.