Lessico meridionale
Troppe informazioni così ci verrà la nausea
Il mondo si è rimpicciolitoe il web è un frullatoredi notizie di cui facciamoogni giorno indigestione
«Faccio una ricerca su Internet» è una frase grimaldello che si sente sempre più spesso e che ha assunto un’aura strana, quasi da sciamaneria o da sortilegio, soprattutto se accompagnata dalla «perlustrazione del mondo dei social» in cui ci si avventura anche se barcollanti nella utilizzazione tecnologica indispensabile (sto parlando di me, me ne accorgo con ansia). Nella variante «nel sociale», è ineludibile soprattutto quella parte di esso attrezzata e sfruttata dove, peraltro, la rete svolge una funzione cruciale, «la ricerca su Internet» si erge autoritaria, quasi minacciosa, tra studenti e docenti. E, se i professori stessi l’hanno istigata, essa, tuttavia si alza come un feticcio inappellabile e indiscutibile. E il mondo, dalla rete, capitombola tra i nostri piedi, nel nostro tinello. Tutto a portata di mouse. Parafrasando Flaiano, quando sento dire da uno studente che «farà una ricerca su Internet», mi viene spontaneo commentare: «Sempre meglio che studiare».
Una cameriera della mia infanzia, quando sentiva alla radio la notizia di un cataclisma, sospendeva ogni faccenda e prestava orecchio vigile e attento, trasalendo visibilmente, salvo a rifiatare sollevata se, a completare il comunicato, lo speaker informava che l’evento era accaduto in una plaga lontana. Ho sempre sospettato una certa malizia del giornalista che partiva emozionando con «Trecento dispersi in un terremoto…(pausa)…in Nuova Caledonia». Antonietta si bloccava sui trecento dispersi con la bocca aperta e la scopa in mano, poi a «Nuova Caledonia» diceva «Ah, meno male» e riprendeva il lavoro più tranquilla e non troppo ansimante per quelle vittime esotiche e lontane. Io, bambino, sapevo vagamente dove fosse la Nuova Caledonia grazie ai francobolli da collezione e mi dispiaceva lo stesso per i trecento dispersi lontani, in cuor mio speravo che li salvassero. La notizia per me c’era tutta e drammatica. E i dispersi, comunque, «facevano notizia». Poveri loro. Poveri loro che non avevano letto i discorsi di Churchill, che suonerebbero sadici. «Meglio fare le notizie che riceverle», diceva. Che è come dire, e, infatti, lo aggiungeva, «meglio essere attore che critico». Con il Web oggi è dato a tutti di «fare le notizie» e la maggioranza non deve più accontentarsi di riceverle. I confini del villaggio si sono allargati a dismisura e, per conseguenza paradossale, il mondo si è rimpicciolito al punto che, finalmente, ci commuovono anche i terremoti in Asia o le epidemie in Africa. Restiamo, però, ancora generalmente tentennanti di scetticismo osservando l’orecchio sparato ad un pretendente alla Presidenza Usa.
Tutto il mondo è paese, ma pensavamo ad un senso diverso dell’adagio, che volesse bonariamente affermare che siamo uomini, tutti uomini, con virtù scarse, privati vizi e pubblici difetti, simili in tutto. Anche nella percentuale di caporali. Il paese unico e globale che siamo diventati, grazie anche alla «rete», non consente più indifferenza o disinteresse, però implica avidità di notizie, fame di quella comunicazione ininterrotta che sembra prevalere sull’ottimo costume della notizia da dare quando c’è e solo quando c’è. L’incubo del dover riempire un notiziario o una prima pagina a tutti costi comporta l’horror vacui che rischia di contaminare la nostra esistenza quotidiana che è pari solo alla cinica, incosciente indifferenza di quelli che non sapevano guardare di là dalla cinta dialettale per interessarsi di qualcosa.
Se la notizia non c’è, non c’è. Punto. È inutile ricorrere ai «forse» e ai «si dice» o, addirittura, spintonando la verità, al «prima o poi accadrà e, quindi, tanto vale…». La morale di chi pratica questo stile aberrante è: meglio dire una bugia che rischiare di «bucare» la notizia. Tanto, poi, siamo sempre pronti a smentire. E chi s’è visto s’è visto. Il disorientamento del lettore è enorme e moltiplicato dal Web che frulla e distribuisce una quantità enorme di informazioni che finiscono per nauseare come una immane indigestione. L’occasione più ghiotta è la vigilia di nomine o di elezioni, appunto: la fantasia si incarica di trasformare le ipotesi in provocazioni, le congetture in sfide, le illazioni in fatti, forse, per sfamare la nostra ansia di aver qualcosa in prima pagina: se non il mostro, almeno il candidato e la smentita il giorno dopo. Forse per sfamare il rovello che, innegabilmente inquieta i nostri sospetti o, forse, solo per sfamare il giornalista. Il fatto è che i giornali, i Giornali radio, i telegiornali, devono uscire ogni giorno, più volte al giorno. Quando c’è penuria di notizie «notiziabili», s’inventa qualsiasi cosa. Una volta si ricorreva ai preziosi e innocenti dischi volanti o a quel simpaticone dell’«abominevole uomo delle nevi», oggi, qualche volta, si pesca nel torbido o nel falso. L’infamia del sentito dire. Bernanos scrisse: «Ad un certo punto uno scrittore deve scegliere tra il conservare la fiducia dei lettori o il perderla e che preferiva perderla anziché ingannarli».