Lessico meridionale
Addio «accio», così tramonta il dialetto
Si impoverisce così un patrimonio linguistico che lascerà spazio agli spintonidi anglismi inopportuni
L’attualità mi spinge alla linguistica. Cito qualche riflessione di anni or sono perché nulla è migliorato per quanto riguarda la lingua nostra.
Il «sopratavola» in dialetto barese, ma, anche nel pur modernizzato «giargianese» d’uso spicciolo, denomina quella ricchezza, quasi tutta vegetale che ornava e arricchiva il desco: sedani, finocchi, pomodori, carciofi, fave fresche, ravanelli, ma anche frutta secca e altro che la fantasia dell’ospite poteva proporre. La composizione di protagonisti dell’orto e diretti dalla regìa della imbandigione affidata, quasi sempre, alla generosa fantasia delle donne invogliavano al desco, alla quiete pascoliana del «desco fiorito d’occhi di bambini». Oggi il «sopratavola» vive un rischio sia come concetto che come nome.
Nel decadere impietoso dei dialetti, anche il Barese schietto e ruvido, subisce demolizioni epocali che neanche l’ostinazione delle vestali più appassionate può impedire. Locuzioni e parole spariscono, sostituite da lemmi «italianesi», cioè italiani colorati di barese, impoverendo un patrimonio culturale che lascerà il posto agli spintoni beceri di anglismi inopportuni e di arbìtri ancora più prepotenti. È un fenomeno generale nel nostro Paese, ma non solo: anche le altre lingue d’Europa, patiscono le folate di tempesta generata dalla cultura di massa, dal diffondersi di una lingua omologata dai media, condivisa da un villaggio in grado di confinare la propria indole linguistica all’area nazionale, ma priva di specificità storiche e culturali armonizzate col passato, un passato che va libidinosamente dimenticato. Come il «sopratavola».
Ma i costumi linguistici e le parole sono sempre cedui anche per la sparizione dei concetti di riferimento, degli oggetti, cioè che denominano. «Nomina sunt consequentia rerum» avvertivano i Latini: «Le parole sono conseguenza delle cose». Il che voleva dire che «le cose» dettano il proprio nome a sua volta impartito dall’uso cui si prestano. Adamo, nel libro della Genesi, battezza, mimando la creazione, nell’attribuire nomi alle cose. Ma le cose ci sono, esistono intorno a Lui nella solitudine edenica che padroneggia: mai si sognerebbe Adamo di inventare parole per cose inesistenti. Astratte, sì, inesistenti no.
Nessuno più pronuncia, dico per fare un esempio, la parola «lucignolo» o «chiavarda», stante la sparizione di questi oggetti dall’uso comune e nessuno dirà mai che la porta cigola sui suoi «gangheri», riservando questa parola alla locuzione, peraltro antiquata, di «uscire dai gangheri» per dire andare sulle furie, su tutte le furie, fuori dalla ferrea disciplina del ganghero, inteso come regola. Questo processo descritto si chiama «Semantica».
Una pietosa crocetta nera sul buon vocabolario, segnala le parole defunte o in agonia avanzata. Dovremo, presto, rassegnarci a contemplare la sparizione dal lessico dialettale di parole a cui eravamo affezionati. Leggo che la produzione vegetale del barese sta scemando vistosamente per ragioni legate ai problemi dell’economia locale, aggravati dal fosco orizzonte nazionale ed internazionale. Problemi complessi che, pur sfuggendo ai più, ai non esperti nelle loro cause e concause, pure, nei loro effetti, invadono la vita quotidiana di tutti. Di tutti coloro che sono tenuti a far di conto tutti i giorni col bilancino della spesa.
Leggo che in Puglia, la bella Puglia verde, proprio gli ortaggi e le verdure stanno diminuendo paurosamente o arrivano a costare un patrimonio per via di quelle complicatissime leggi di mercato che svuotano i mercati rionali. E svuotano il linguaggio storicamente loquace circa la nostra civiltà.
Prepariamoci, quindi, non solo a sguarnire di «sopratavola» le nostre mense, ma, anche a dimenticare le parole e i nomi che indicavano le preziose anticaglie del verduriere. Nessuno pronuncerà più la parola «accio», in dialetto indicante il sedano profumato o il termine «cima di cola» ben noto alla gastronomia barese. E il basilico italiano ribattezzato «vasinicola»? Mi accorgo che spunta spesso il «cola» di San Nicola.
Eppure io ricordo che, neanche tanti anni or sono, v’erano olezzanti pile di sedani e finocchi giganteggiare nei mercati. E ricordo la caccia al verme del formaggio «punto» praticata col moncone di «accio» giallo-verde tenerissimo praticata sui tavolacci delle sagre di paese. Cibo povero e sano per gente sana, ma povera. Ma anche per gente ricca che non se lo faceva mancare. Ci avvertono che queste verdure, anche in Puglia, mancano o, se non mancano, diventano rare e preziose. E le parole? Addio «accio» e addio «cime di cola». Il vocabolario popolare si impoverirà ancora, ma, anche l’economia nostra dimagrirà. Il mercato ha le sue regole, si sa: se non rende un prodotto perché troppo abbondante e non remunerativo, il mercato impone di renderlo difficile e raro. Si arricchisce il mercato, si danna il consumatore nel mercatino, stravincerà il supermercato col succo di sedano o la rapa liofilizzata Made in China e il vocabolario vernacolare aggiungerà una nuova crocetta davanti ad una parola. Addio «accio».