Lessico meridionale
Il tempo rubato nei dibattiti in tivù
Provatevi a capire le opinioni di chi parla nel foro televisivo in quel chiasso di voci contendenti
«Polonio - Cosa state leggendo, signore? Amleto - Parole, parole, parole». E che cos’altro avrebbe preteso di trovare in un libro, il principe? Dovunque si trovino, abbiamo il dovere di farle vivere, le parole, perché ci permettono di pensare. Ci sono parole che possono servire da sole, ma la gran parte ha un significato solo se sono usate insieme ad altre e in armonia. Il senso delle parole, talvolta, sta tra di loro e non in loro. E spesso sta nelle pause! Gli attori veri lo sanno, con quelle pause e quei silenzi dalla emozionante affabilità. Memorabile la risposta di Eduardo che durante un taciturno ingresso in scena stralunato e sgomento alla vista della scena che rappresentava Napoli devastata dalla guerra, subì uno sguaiato «Voce!» gridato dalla platea: Rispose calmo «Ne, ma chi sta parlann?». L’antica sapienza s’è prodigata nel perorare la virtù del silenzio e i vantaggi del tacere, magari per ascoltare. La sentenziosità degli antichi riverbera, come magistero dimenticato, nella moderna agorà mediatica che comprende l’isterico brusio dell’informatica e dei cosiddetti new media dove l’affabulazione insensata e invadente impedisce la via della logica e della ragione. Il logos soccombe.
Provatevi a capire le opinioni di chi parla nel foro televisivo in quel chiasso di voci contendenti! I registi tentano di usare la buona tecnica dei «piani d’ascolto», ma s’arrendono impotenti: per inquadrare qualcuno che ascolti occorre che, costui, e non interloquisca con la mimica goffa e stucchevole e taccia: ma, questo, non accade. I registi hanno letto gli antichi, Vangelo compreso, e conoscono l’ossimoro «Parla tacendo». I frequentatori dei talk show non se ne sono curati. E pasticciano da guitti.
Sono gli sprazzi di silenzio che rendono interessante la conversazione in certi spettacoli della conversazione in tv, salvo se si parla di politica o se la politica spintona tutti i palinsesti per primeggiare: troppo rari, i silenzi, se si fronteggiano esponenti del «personale politico». Tra costoro è tenace la convinzione che la libertà di parola non sia un diritto, ma un abuso perpetuo. Se si aggiunge la pratica di interrompere i convitati, si capisce che, alla sigla finale, il pubblico sia frastornato e 2 non abbia capito nulla perché non di ascoltatori si tratta, ma di spettatori. Per loro il fragore delle immagini deve bastare. Infatti si chiama talk-show: spettacolo della conversazione e non conversazione e basta. Per dirla con Churchill: «Dilatare nella massima quantità di parole la minima quantità di idee». E lasciarla televedere.
Sono un difficile spettatore della televisione. Avendo ricevuto un’istruzione che cerco, non solo di ritenere, conservare e mettere a frutto, ma, anche, di trasmettere, sono uno spettatore critico. Questa istruzione è anche formazione morale, naturalmente, ma, non solo, è preparazione professionale. I tedeschi, cito Karl Kraus, direbbero bildung e annovera la mia professione, il mio mestiere di regista, attore e conduttore radiotelevisivo. Che non mi riesce di subire passivamente e con distacco, da spettatore pigro e rassegnato, il prodotto televisivo, la complessa segnaletica che lo struttura, il codice con cui si esprime e funziona. E sto lì ad indagare il portamento dei protagonisti, il movimento delle telecamere, il montaggio del racconto, anche in diretta, gli «stacchi» del regista, tutto quel complesso sistema semiotico che traduce la realtà in messaggio televisivo. La visione è tormentata dall’attitudine a non ratificare supinamente ciò che vedo e ascolto, ma a studiarlo tecnicamente. E, naturalmente, tra l’altro, non poteva sfuggirmi, oltre la pessima tecnica del parlarsi sopra e addosso a sé stessi e agli altri interlocutori, il reiterato uso del «piano d’ascolto» per smentire, dissentire e far sentire anche senza emettere parole, se mai, solo qualche suono inarticolato, borborigmi, risatine, bofonchiamenti.
Che cosa è il «piano d’ascolto»? È quell’inquadratura che l’operatore alla camera propone e che il regista «stacca», manda in onda, quando il soggetto sta ascoltando un altro che parla non inquadrato. Nella tecnica del cinema si usa molto in quella modulazione del racconto che si chiama «campo e contro campo» e consente di far esprimere con il volto le emozioni, i pensieri, le sensazioni dei protagonisti. Nella vita si ascolta, in cinema e televisione si fanno i piani d’ascolto. Questi, nei dibattiti tivvù, sono tempo rubato a chi sta parlando perché i furbacchioni, quando si accorgono di essere inquadrati, assumono espressioni, fanno smorfie, ridono sardonicamente, gesticolano, inarcano il sopracciglio, fanno bum con le guance, recitano, insomma. E recitano male e con goffaggine: riescono a danneggiare l’avversario ma non seducono il pubblico, lo intontiscono di sberleffi e confondono il dibattito. Non sono bravi attori, non ne hanno la bildung, tutto qui. Essendo a digiuno di tecniche e preparazione, trasformano il dialogo in litigio, il dramma, in farsa. E sono anche maleducati. «Polonio - Cosa state guardando, signore? Amleto - Piani d’ascolto».