Lessico meridionale

Quelle voci petulanti sulle colpe della scuola, cicaleccio petulante e pretenzioso

Michele Mirabella

Perché i genitori hanno da fare, non possono, sono impegnati. Nel lavoro, nelle relazioni sociali, nel litigare

Una delle voci più petulanti che intervengono frequentemente, allorché ci si lamenta dei guai della società, delle contraddizioni del vivere, delle mancanze sociali, delle difficoltà del tempo nostro è quella che invoca la funzione della scuola. In qualche occasione se ne lamenta la pigrizia e l’assenza di buona ed esauriente didattica. Il cicaleccio è insistente e protervo, arrogante e pretenzioso. «O che fa la scuola? O che? Dovremmo occuparci noi di tirar su la prole? Magari anche insegnandole a vivere? Ma come sarebbe? E loro, lì, nelle classi, in cattedra, ancora si ostinano a seguire i programmi? E il mondo? Chi spiegherà agli studenti come va il mondo? Ci mancherebbe altro che lo facessimo noi. Noi siamo genitori. È già tanto che li abbiamo messi al mondo e li facciamo diventare obesi, i figli». Anzi, «il» figlio.

È sempre colpa della scuola se i cittadini mancano ai propri doveri e ignorano i diritti, se trasgrediscono, non solo le leggi, ma anche le più elementari norme del vivere civile, le regole della comunità, la buona educazione, la creanza spicciola, il codice della strada. È colpa della scuola che non insegnerebbe a sufficienza le lingue moderne, il rispetto della natura, l’igiene, la danza moderna, le virtù morali, la dieta punti, la fisica quantistica, il cinese, inteso come lingua, la giapponese, intesa come lotta, l’educazione sessuale, quella religiosa, quella sportiva, la tolleranza tra razze e paesi, il pattinaggio su ghiaccio, il ricamo e il punto a giorno, l’atletica, il galateo, l’uso del computer, la Costituzione, la gastronomia, la navigazione in internet, il pattinaggio artistico. E la scuola non s’impegna abbastanza, si sente dire nel salotto delle «signore mie», per insegnare la lotta alla droga, allo stupro delle ragazze che «se lo sono cercato», al calcio-scommesse, la resistenza alla cattiva e avvilente cultura del caotico mondo mediatico e, per invogliare ad alti pensieri, a scrivere letterine alla mamma, a sottoscrivere per la pace, la tolleranza, la guerra alla fame, alla forfora, al lavoro minorile. Tutto la scuola deve fare, anche trasformarsi, nei ritagli di tempo degli insegnanti, in scuola guida.

Perché i genitori hanno da fare, non possono, sono impegnati. Nel lavoro, nelle relazioni sociali, nel litigare e nella cattiva e avvilente cultura del caotico mondo mediatico nell’immane condominio. Se sono separati, la faccenda si complica. L’unico figlio si estranea e concede fugaci appuntamenti all’ora dei pasti. Poi scappa a portare fuori il cane a far pipì. Se va bene. Se va male si i misurerà con una banda di coetanei nell’immortalare le più bizzarre e, talora, criminali prodezze da consegnare alla storia contemporanea della propria solitudine. Da molte parti si levano voci «politicamente corrette» in polemica con la vetustà della cultura scolastica che ancora si ostina a dare una formazione di base esauriente circa la millenaria storia dell’umanità e, addirittura, si incaponisce ad insegnare lingue e letterature, matematica e geometria, fisica e chimica, geografia e scienze, storia, storia dell’arte e filosofia, soprattutto filosofia, invece di aggredire l’attualità fremente della vita contemporanea. Sarei curioso di sapere da questi che, magari, a scuola erano solennissimi somari, se loro, per primi, saprebbero spiegare ai pargoli come va il mondo. Almeno nelle linee generali, non dico nei dettagli. Non mi aspetto, infatti che spieghino alla figliolanza, al «desco fiorito d’occhi di bambini» (è Pascoli, non v’affannate a ricordare), non dico la complicatissima politica economica, o la naufragante vicenda dell’emigrazione, non il misterioso cuneo fiscale, ma, almeno, la tragedia del clima del pianeta. E no, è comodo, troppo comodo, delegare alla scuola quello che non abbiamo voglia o capacità di fare. Jean Piaget, pedagogista e psicologo, fondatore della epistemologia genetica, è vero, ammoniva che i figli non appartengono né ai genitori né alla società, ma solo alla loro libertà futura, ma questa, la libertà, si conosce e si definisce, si concepisce e reclama solo dopo che famiglia e scuola hanno solidarizzato per costruire coscienze e intelligenze, senza rinunce e deleghe, senza rese e stanchezze. Se la famiglia abdica al suo ruolo ed ai suoi compiti, la scuola ha il dovere di supplire finché può, ma ha anche il diritto di reclamare ed allarmare.

Non può sostituirsi all’autorità genitoriale, ma non solo, non può diventare surrogato di quella specie insostituibile di amore che si chiama educazione. In tinelli dove troneggiava il televisore si consumava il rito dell’apprendimento collettivo e la decisiva capacità dei media di diffondere i saperi, si componeva con la fruizione collettiva della famiglia. Oggi la comunicazione mediatica ha una fruizione solitaria, più che individuale, l’adolescente è solo con l’universo mediatico: naviga, percepisce, si illude, apprende, travisa, immagina. E può naufragare, senza guida, senza amore. I genitori, da un’altra parte, sono soli anche loro. La scuola va, oberata di domande e impegni, impotente, a volte, sotto le imperiose richieste delle voci petulanti. Va povera e nuda. Come la filosofia.

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