Lessico Meridionale
Mangiare per vivere, vivere per mangiare. Pensiamoci sempre
Prima di arrivare al pane casereccio, al croissant o alla pizza, chi di dovere dovrebbe studiare il seme, la terra, l’aria, l’acqua, il concime. E conoscere il fornaio.
Samuel Johnson, scrittore, anzi, meglio, scrittore inglese, fu considerato tra i migliori esponenti e animatori della cultura e della scienza del XVIII secolo e meritò l’appellativo unanimemente riconosciutogli di «Dottor» Johnson. Dalla sua opera traggo un tesoro precettistico: «Colui che non si preoccupa di quello che mangia non saprà preoccuparsi di nient’altro». Saggio, saggissimo. Aggiungerei che «non si cura di quanto» mangia.
Dobbiamo curarci sempre di quello che mandiamo giù ed esaminare, vagliare, scegliere sia che abbia ragione Socrate che sosteneva di mangiare per vivere, sia che vogliamo dargli torto vivendo per mangiare. Prima di arrivare al pane casereccio, al croissant o alla pizza, chi di dovere dovrebbe studiare il seme, la terra, l’aria, l’acqua, il concime. E conoscere il fornaio.
La necessità di soddisfare enormi bisogni non deve essere l’alibi per rinunciare alla qualità e salubrità dei cibi. È vero che dal tempo del miracolo dei pani e dei pesci non s’è dato altro esempio convincente di sviluppo compatibile, come lo chiamano i sociologi, ma è anche vero che se le prelibatezze sfornate da Gesù panettiere e pescivendolo sono inarrivabili, come del resto lo era stata la qualità del vino di Cana, possiamo e dobbiamo tentare di salvaguardare la genuinità e bontà degli alimenti per difendere la salute degli uomini a maggior lode del Padre. Padre al quale, peraltro, chiediamo il pane quotidiano riservandoci, evidentemente, di pensare noi al companatico.
Come avrebbe detto il dottor Johnson moralista, serve una sana condotta di vita e di studi accompagnata da irreprensibile vigilanza sulla naturale qualità e difesa integerrima del diritto per tutti ad apparecchiare il desco tutti i giorni. E, aggiungo io perché il dottor Johnson non aveva motivo di preoccuparsene, occorre avere cura assoluta che scienza e diritti della natura vadano d’accordo. È questo si, è il problema morale del millennio appena cominciato
In una società che scatena bufere eclatanti o feste transitorie con la periodicità sospetta concessa dai media, sulla qualità della vita, sulle diete ossessive e ridicole e paradossali, sui rischi connessi ai nuovi stili di comportamento e alla moderna alimentazione, viene da domandarsi se non sia meglio vigilare giorno per giorno creando una seria coscienza della salute piuttosto che scatenarsi in ondivaghe e passeggere campagne di attivazione del dissenso. Con lo stesso rilievo si proclamano campagne per diete bislacche in feste massmediologiche condite di isterismi occasionali o modaioli.
Saper mangiare non è solo un’arte, è una necessità vitale. Per tutti: uomini e bestie. Soprattutto se gli uomini, poi, le bestie, le mangiano. A lasciarle fare, loro, le bestie, mangerebbero con intelligenza spontaneamente, naturalmente. Gli uomini no, devono decidere di farlo. Brillat-Savarin scrittore francese quasi contemporaneo del dottor Johnson (1755-1826) e autore del famoso Phisiologiedugôut scrisse «L’uomo mangia, solo l’uomo intelligente sa mangiare». Sa scegliere.
I frati nel refettorio mangiano, mangiano lentamente, tacciono per ritualità e perché si fidano: quello che vien servito nel loro desco lo coltivano, allevano e cucinano loro. Si tratta di severità cenobitica, ma anche di gusto sottile per la piccola gioia dello sfamarsi senza ingordigia che è una mite forma di preghiera. E il Creatore ha sicuramente piacere di questo. Non si dice del cibo buono e genuino che è una «Grazie di Dio», quella grazia di Dio che bisogna rispettare e custodire senza abusi e sprechi? Ma si dice ancora così? C’è ancora qualcuno che usa questa locuzione rispettosa del cibo visto non come cuccagna gratuita, ma come frutto di fatica e pazienza? Per non parlare della sublime arte della cucina. Quelli dell’ingurgitamento fine a sé stesso la conoscono?
Non credo, giacché il mangiare velocemente è considerato comodo e utile anche se non sappiamo, se non di rado, che cosa, veramente, stiamo mangiando. Sarà Grazia di Dio? E se lo è, perché la mangiamo in piedi, ingurgitando velocemente enormi bocconi mandati giù con i calci della bevanda gasata americana?
Si chiama «Fast food». Traduzione: cibo svelto. Che orrore. È una contraddizione in termini oltre che un affronto alla salute: questo è un modo per saltare a piè pari la prima, preziosissima digestione.
E’ vero, pressati da ritmi disumani e dal cottimo frenetico della vita quotidiana, non sempre abbiamo il tempo necessario al meditato pranzo e, allora, io consiglio la tecnica dei contadini di un tempo: ad una cert’ora si fermavano, si stiracchiavano, si sedevano, dove capitava, ma si sedevano, schiacciavano una preghiera di ringraziamento e, lentamente, davan di piglio al grande e rassicurante pane con companatico (ogni giorno diverso, con fantasia, dalle verdure al salame, alla impagabile frittata) non rinunciando ad innaffiarlo con del vino. Poco, ma buono. Poi aspettavano in silenzio o parlando a bassa voce. La digestione, i contadini lo sapevano, lavora per noi, va rispettata. I saggi latini della Scuola medica salernitana hanno imparato da loro. E anche il dottor Johnson. La dieta mediterranea ha fatto il resto.