Lessico Meridionale
La bellezza di andare «mare-mare» sulla costa adriatica
Quell'incedere lento e attento pronto a farsi sorprendere. Ma il prezioso tratto di spiaggia barese, aggredito dall'uomo, è uno spettacolo triste
Una mia zia, fonte di saggezza che esprimeva con efficacia lessicale, coniò una definizione sublime dello sfaccendare domestico. Disse: «sono andata “casa-casa” per tutta la mattina». Mia zia verbalizzava che, pur senza una linea programmatica, s’era affaccendata in casa lasciandosi guidare dall’improvvisazione, dall’estro subitaneo, dalla contingenza suggerita dai fatti. Ascoltandola, mi venne in mente una locuzione analoga: andare «mare mare». Andare «mare mare» è un modo di dire rafforzativo di un incedere costiero che non trova altra definizione. Si, certo, si può anche dire bordeggiare o camminare lungo la costa, ma, vogliamo proprio fare il paragone con questa perfetta locuzione?
Andare «mare mare», intanto designa un incedere lento e attento, anche se, apparentemente, distratto e, poi, lascia ben intendere la perlustrazione pronta a lasciarsi sorprendere dall’evento che il mare può rappresentare, anche all’improvviso. Perché il mare sa essere sorprendente, mutevole, fascinoso ed è capace di brutalizzarti con repentina furia, ma, anche di addolcirti e blandirti inscenando panorami subitanei di luce e colori. Il mare libero, s’intende, ma, anche, quello rappreso nella palude dei porti acquitrinosi, nella soffocante tenzone di una gora riparata dagli scogli. Anche questi pelaghi minimi meritano che si vada «mare mare» per congiungersi in amicizia con loro. Sia andare «casa casa» che andare «mare mare» pretendono che ci sia una realtà praticabile umanamente, una confidenza ineffabile che solo con quei raddoppi asseverativi si può intendere. Va da sé che, se la casa è un abituro disadorno e sciatto, disadorna di amore e sciatta di trascuratezza, andarci a zonzo è vacuo aggirarsi inoperoso. E va da sé che se il mare è soffocato dal cemento, brutalizzato e respinto dalle costruzioni abusive, e sulla riva del mare lo sono in molte, la passeggiata è impossibile e quella che era una perlustrazione del cuore più che una camminata distratta diventa un tormento.
Ed ecco che, con la fine del preambolo, arriva la sconsolata considerazione. La costa barese, la mia, la nostra, preziosa porzione di spiaggia adriatica, a tratti, è uno spettacolo triste: l’aggressione dell’uomo è talora feroce, alcune tracce tracce devastanti. Mi accontento di andare «mare mare» lontano dai centri abitati lontani dal degrado: una mostra di letamai a cielo aperto, di relitti, di erbacce. A farci caso ritrovi sugli scogli le tracce catramose di una pioggia di pece che inaugurò il dopoguerra, conseguenza terribile, così mi raccontavano da bambino, dell’esplosione di una nave nel porto di Bari. Oggi, dicono, è esito del lavaggio di stive al largo della nostra costa i cui relitti marciscono avvinghiati alla plastica delle bottiglie abbandonate dai turisti «mordi e fuggi». Mordono crudeli e feroci e scappano vigliacchi.
Talora si costeggia una sequela di costruzioni scalcinate destinate al commercio dei frutti di mare. Sul lato terra la sfilata di costruzioni costituisce una campionatura di efferatezze edilizie. Pateticamente, in una insegna, si registra un solecismo, «Frutta di mare» e un anglicismo che non riesce ad alleviare una certa invadenza: «White fish». Sa Dio perché in Inglese, visto che, a modo loro, tramandano una passione tutta pugliese, quella del «crudo». Alcune vecchie «sciale» che erano caratteristici capanni rispettosi delle distanze e discreti nell’appoggiarsi sulle spiagge, hanno artigliato con fondamenta di cemento le rive e si sono, di anno in anno, spinte nell’acque, occludendo panorami, inquinando, derubando i cittadini delle libere spiagge. Oggi si fanno chiamare ristoranti a mare.
Al limitare dell’avvio del lungomare che collega Santo Spirito a Palese, plaga bellissima non arredata, gioiosamente frequentata da una balnearità discreta e fuori dal consumismo per la sacrosanta voglia di andare, appunto, «mare mare», si avvilisce una montagna di rottami edilizi di una costruzione che si direbbe abusiva, se come dicono, eretta con discariche di materiali di uno scarico lontano da quella bella spiaggia.
Quell’arnese, dicono, crebbe inesorabile per la caparbietà di chi voleva cementificare una «sciala» e creò una specie di promontorio su cui nacque un ristorante-bar. Appunto. Adesso è una ossuta rovina, albergo di topi che si protende verso le onde impedendo la vista del dolce confine tra i due villaggi Santo Spirito e Palese. Leggo che l’autorità (vai a capire quale) non sia riuscita ad appaltare una bonifica del rudere o la più giusta sua demolizione.
La battigia rischia di diventare un immondezzaio, le maree impietose, (e perché dovrebbero avere pietà per gli uomini sporcaccioni) tentano di restituirci liquami, rifiuti, sporcizia che abbiamo scaricato in mare. Uno studioso potrebbe ricostruire dal marciume la storia del consumismo pugliese. Ma non troverà neanche una «pelosa» o un «salipcio». L’anno scorso ho scansato una scatola di sardine del 1983. I residui della modernità sono immortali e, tra scatolame e buste di plastica, ferraglie, cartacce, cocci di vetro e reliquati di elettrodomestici, solo le bucce delle angurie corrugate dal sole e dalla salsedine riescono a morire per non dar fastidio.
«Mare mare». Ancora e sempre. Diamoci da fare.