Lessico Meridionale

Siamo vagabondi «in pectore»: volere o volare c’è un Ulisse in noi

Michele Mirabella

Da giovani professammo la vocazione al viaggio come una militanza, era il vagheggiamento di una ribellione che atteneva al sogno

Volere o volare: viaggiare. Vagabondi in pectore, da giovani, professammo la vocazione al viaggio come una militanza e, se non era onesta inclinazione o disposizione famigliare per vicende professionali dei genitori, era vagheggiamento di una ribellione che atteneva al sogno. E il sogno giovanile era alimentato dall’immaginario cui potevamo approvvigionarci scrutinando i sogni altrui, quelli letterari. Spigolando tra Pirati malesi e Corsari colorati, sottomarini, palloni volanti, Paesi dei balocchi, praterie e jungle, accertammo l’ineluttabilità del piano sognato nelle veglie di adolescenti: viaggiare.

Volere o volare, viaggiare. E saremmo stati liberi: un pensiero vago quanto dolce e ribelle. Poi molti di noi incontrarono Ulisse.
Fu amore a prima vista. E sillabammo: o , o, ooo… «Colui dal multiforme ingegno che molto viaggiò». Di questo s’era occupata la Musa di Omero. La nostra, più dimessa e scapestrata, continuava a istigarci, tutt’al più, a marinare la scuola. Ubbidendo entusiasticamente, forse, perdemmo la correzione del nostro compito in cui avevamo, maldestramente, tradotto «O Musa racconta del viaggiatore che dopo aver distrutto Troia se ne andò…» e basta, fermàti a guardare fuori della finestra, intercettati dagli aoristi. Ma Ulisse «che aveva visto molte città e conosciuto la mente di molti uomini» s’era, ormai, seduto per sempre nella nostra classe, compagno di banco.

Ulisse il bugiardo. Ulisse l’astuto. Ulisse il viandante. Cominciamo da lui, dal bugiardo, il mentitore irruente e geniale che s’affaccenda a sospingere eroi potenziali, ma renitenti, come il femmineo e stravagante Achille nel resoconto malizioso di Stazio, a mitici assedi. E, in quelli, si prodiga ad architettare marchingegni fedifraghi. Ulisse costruttore di marziali balocchi equestri. Ulisse-Nessuno accecatore di colossi esagerati e sragionanti, personificazioni della bruta irrazionalità ferina ereditata dalle buie profondità delle teogonie. Ulisse bugiardo anche con gli Dei, soprattutto con gli Dei. Ulisse che colma la distanza tra apparenza e realtà affinando l’intelligenza e che sottrae agli avversari, con la menzogna, le necessarie informazioni per l’agire. Ulisse il giocatore che si traveste con i panni dell’altro e volontariamente dice il falso, volontariamente e coscientemente, per ubbidire al Platone che verrà il quale avverte che il «mentire intenzionale ha più valore che dire involontariamente la verità».

Ulisse astuto e prudente. Ulisse che è, sì, forte e valoroso, ma è, soprattutto e sopra tutti, intelligente. È il giocatore che aspetta paziente, irridendo alla petulanza degli Dei invidiosi, il momento giusto: il ò greco che significa, però, anche l’ora fatale, quella che indichiamo come l’epilogo quando di chi conclude il troppo breve errore della vita diciamo che è giunta la «sua ora». Ma Odisseo coglie l’attimo per l’azione fulminea e opportuna: s’aggira nelle probabilità, senza certezze geometriche e gioca con la gioia malinconica dell’azzardo esasperante.

Ulisse simulatore abilissimo: persona tragica e comica del teatro girovago cui il suo vagabondaggio lo costringe con le Sirene, Circe e Nausica a far da comprimarie, che inventa, manipola e narra affascinandoci con la malizia sublime di chi ci sta dicendo che sa di essere, a sua volta, narrato e che narrato sarà anche dai posteri e ai posteri di cui disperatamente si vuole sentire contemporaneo.

Ulisse il saggio di una saggezza che surclassa la furbizia spicciola che scaffali di luoghi comuni gli hanno attribuito, s’aggira nelle pagine dell’Iliade armeggiando e aspettando che noi lettori espugniamo il libro mentre gli Achei diroccano Troia, per presentarsi sulla scena dell’età moderna come il viandante nuovo. E parla greco. Parla e parlerà greco per noi, forse pattuglia più esile, quando lo incontriamo ancora. È al cospetto di Dante pellegrino che, anche lui, viandante, lo stana, bruciante di fiamma castigante nel luccioleto dei consiglieri fraudolenti. Pena meritata anche se con approssimazioni nel contrappasso che è forzato, probabilmente, dalla confusione tutta medioevale tra il callidus, astuto dei latini, ecalidus, l’altrettanto latino per caldo, rovente, avvicinati etimologicamente.

Virgilio, più costumato ad aver a che fare con eroi altolocati e, per giunta, Greci, parla, interroga, testimonia l’incontro più fatidico della letteratura di tutti i tempi: quello tra due viaggiatori che, a diverso titolo, camminano nella storia e nella geografia del mito, quella geografia irrappresentabile, se non nel sogno che sogna i repertori degli archetipi profondi.

E il compagno di banco torna a raccontare e, quindi, a vivere, remigando negli endecasillabi perfetti d’un viaggiatore e poeta fiorentino del milletrecento: «Quando mi dipartii da Circe…», «Quando» va sillabato in modo che la prima sillaba suoni come l’acqua smossa dal remo fugace della vicenda di Ulisse che deve continuare, volere o volare a navigare. Anche nelle ipotesi eroiche di Dante e nel nostro più argomentato immaginario. «Quando». E se fosse Circe la poetessa del racconto di Ulisse a scrivere quel poema che Dante non ha letto, ma, solo vagheggiato. Tra le ipotesi della questione omerica sull’identità di chi ha scritto l’Odissea, si affaccia quella che sia stata una donna.

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