Lessico Meridionale
Parcheggia in doppia fila e dice «si faccia gli affari suoi»
In quella frase il segno di una sottocultura mafiosa
«Ma, lei, perché non si fa gli affari suoi?» sibila la signora. Ma si capisce che non ha alcuna curiosità di conoscere la ragione per la quale, a sentir lei, «non mi faccio gli affari miei». L’espressione è fraseologica, rientra nell’armamentario di formule che si usano per attutire l’improperio, una specie di eufemismo banale che, a seconda del tono, modula ostilità e rancore, minaccia e sfida, invito a tirare a campare o a tirare dritto: l’elogio dell’omertà o del menefreghismo. Gli è che la signora sta tentando di abbandonare la sua automobile in doppia fila, ad un metro dal semaforo accanto alla mia, parcheggiata regolarmente, intasando il traffico e impedendomi di uscire liberamente.
Gli è che le dico, prima con tono scherzoso, che dovrò andar via e che lei me lo proibisce. Gli è che, nonostante la pacata e innegabile verità che affermavo, obietta testarda che si tratterrà solo pochi minuti, ma io le faccio notare che, comunque, sono troppi perché è proibito fare quello che sta facendo e che il suo tentativo di oberare con il suo veicolo strada e passo pedonale costringendomi a contorsioni per farmi uscire e ostacolando ancora più gravemente il traffico ossessivo del centro della città, è un illecito orribile.
È a questo punto che, da leggero scambio di battute, l’incontro diventa un alterco e arrivano la domanda stupida e micidiale e, immediata e altrettanto micidiale e, forse, stupida, anche la mia reazione di ira e sdegno. «Come si permette di chiedermi perché non mi faccio gli affari miei? Sono affari miei. Eccome. Il traffico, l’ossequio alle regole, l’educazione civica, il rispetto dei diritti degli altri sono affari miei». Lo capirà mai, la dubbia signora? È tempo sprecato: con questa gente l’indignazione è fatica buttata via.
Ad un certo punto, la ex signora sembra esser vittima di uno strano incidente. È stata fulminata da un pensiero (addirittura): aspettare la mia partenza e parcheggiare regolarmente. È più intelligente di quanto sembri, anche perché non potrebbe esserlo di meno. Ma le sono grato perché con la sua domanda: «Ma lei perché non si fa gli affari suoi?» mi ha ricordato la paludosa e mortifera filosofia spicciola annidata in quella frase: un misto di egoismo e autoreferenzialità espresso dal quel «farsi gli affari propri», quel rafforzativo del possessivo, al limite del pleonasmo, che esprime il sospetto per gli altri, la negazione intenzionale della cura per il mondo esterno, la attenzione solo al proprio «particolare».
Un tempo a Bari vecchia, ognuno puliva con cura il quadrato di strada davanti alla propria casa, sicuro che anche gli altri avrebbero provveduto a farlo. E la strada, alla fine, era decente. Oggi, a Bari e in Italia, non solo non si fa pulizia davanti al proprio uscio, ma si cerca di sporcare lo spazio degli altri, salvo, poi, ad insolentire il servizio di nettezza urbana. Perché “si fanno gli affari propri”.
Del resto, annidati nella frase idiomatica, ci sono gli affari. Non a caso. È la mentalità che sorregge la crisi di questo Paese, il non aver cura per la collettività, per il bene comune, quel menefreghismo militante alimentato dalla convinzione che le leggi, le norme, siano solo invenzioni dello Stato per avvilire l’iniziativa privata, tanto privata da spingersi a concepire come legittimi solo gli “affari” propri. È quel sentimento di estraneità alle istituzioni e allo Stato, quel senso di “alienità” che fa abitare il cittadino di queste città, infedele allo spirito dei padri fondatori della civiltà dei lumi, un proprio spazio privato, estraneo alla collettività e arroccato in un egoismo spaventoso.
Privato e armato per sostenere l’assedio delle istituzioni, anche quelle stanche e rinunciatarie che ci obbligano a sopravvivere in città puzzolenti e oberate da un traffico disumano e insolente. E, infatti, fai una passeggiata per le città italiane, soprattutto, ammettiamolo, al centrosud e ti rendi conto della resa della legge all’aggressione degli «affari propri». E, già, perché bene avrebbe fatto la signora ad avvertire me che inveivo contro il suo comportamento incivile, che potevo comportarmi come lei che i suoi affari se li stava facendo benissimo: infischiarmene, abbandonare la macchina in doppia fila e godermi la serata. Ma che mondo è? La sottocultura mafiosa istigata dal familismo perverso agita valori forti che si riducono a nascoste e vigorose radici famigliari, il senso della comunità declina, la convivenza torna a accreditarsi come belluina legge del più forte o del più furbo e si delinea solo un orizzonte gradito: quello del consumo.
Ma la pratica visibile e materiale del consumo diventa solo una componente minima del complesso modello di edonismo individuale che, in gran parte, ha luogo nell’immaginario del consumatore che, oggi, è alle prese con una società delle svalutazioni e delle disparità sempre più accentuate. Chi si farà solo gli affari propri, fatalmente, impedirà agli altri di farsi i loro. La Res pubblica diventa la Res nullius. Andando alle elezioni bisognerebbe ricordarsene e non astenersi dal voto rassegnati. C’entra? C’entra!