La testimonianza
«Io, salentino ostaggio in Afghanistan e quei 23 terribili giorni»
L’incubo vissuto dal fotoreporter Gabriele Torsello: «Bendato e tenuto in catene. La paura continua di essere ucciso»
LECCE - Qualunque sia lo scenario di guerra, le esperienze legate ad un rapimento sono sempre dolorose ed indelebili. A distanza di 17 anni, il fotoreporter salentino Gabriele Torsello, ricorda la sua, vissuta in Afghanistan al tempo della guerra iniziata il 7 ottobre del 2001 con l’invasione da parte degli Stati Uniti, in risposta all’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle di New York, per annientare il terrorismo di al-Qaida, che fra le conseguenze, determinò il ritorno dei Talebani, oggi padroni del Paese.
Torsello venne rapito il 12 ottobre del 2006 alle porte della capitale, Kabul, e per quasi un mese di lui non si seppe più nulla.
«Da free lance, facevo solo reportage fotografici, ma qualcuno pensava fossi una spia. Per questo, mentre ero a bordo di un autobus, mi portarono via con la forza, e trasferendomi bendato e in catene da un villaggio all’altro, il primo in mezzo a una piantagione di oppio, per 23 interminabili e terribili giorni, si impossessarono della mia vita».
Come venne trattato, e da chi?
«Da chi continua a essere un mistero, e sinceramente non me ne importa più nulla. Ho poi saputo che all’inizio si pensava fossi stato rapito dai Talebani, ma assieme all’opinione pubblica italiana, per la mia liberazione, i primi a darsi da fare furono proprio loro. Violenze fisiche non ne ho subite, ma torture psicologiche sì, ed ancora oggi posso affermare che sono state davvero dolorosissime».
Ce le può ricordare?
«Non ricordo più per quante volte, ma all’improvviso, a tutte le ore del giorno e della notte, i miei carcerieri si presentavano nel posto dove mi avevano rinchiuso, mi trascinavano all’aperto, e simulando l’esecuzione con i kalashnikov, mi urlavano nel loro inglese: “Se non ci dici per chi lavori e non ci metti in contatto con loro, ti uccidiamo”. Ma giorno dopo giorno, tenuto a pane duro e acqua e con un secchio per bagno, sebbene mi sforzassi di dire che non ero affatto una spia, mi stavano già uccidendo. Sembrerà paradossale, ma per non sprofondare nel baratro, per non impazzire, ad un certo punto, ho accettato l’idea della morte».
Visto che è stato poi liberato, con la mediazione di Emergency e Servizi Segreti italiani, alla fine, quella terribile idea è riuscito a cancellarla?
«Oggi quei ricordi sono archiviati, chiusi in una stanza, ma non possono essere cancellati. Come potrei. Anche perché, prima della liberazione, di calvario ho dovuto affrontarne un altro».
Ce lo può raccontare oppure...?
«Nessun segreto. Forse è solo un passaggio inedito, e quindi posso farlo. Una notte, mentre fuori impazzava l’ennesimo bombardamento, ho sentito i carcerieri parlottare di un mio nuovo trasferimento con un uomo che indicavano come un ex poliziotto. Sempre bendato e in catene, avvolto in una coperta, mi hanno portato via, e chiuso nel bagagliaio di un’auto. Con l’aria che mi mancava, per sette, otto ore, mi hanno trasportato in giro da una parte all’altra. Ogni tanto il motore si spegneva, ed io ero sempre chiuso lì dentro. Ad ogni sosta, mi prendeva l’angoscia, il terrore che mi avrebbero lasciato morire così, e pensavo che sarebbe stato meglio se mi avessero ucciso con una raffica di mitra».
È più tornato nelle zone di guerra?
«No. L’esperienza del rapimento mi ha fatto toccare il fondo, ma mi ha fatto anche capire lo sporco che c’è attorno a tutte le guerre. Così ho perso l’entusiasmo, la voglia di documentare le ingiustizie nel mondo, come avevo fatto la prima volta con i senzatetto di Roma e poi con i conflitti in Kashmir, fra India e Pakistan ed in Nepal».
Oggi ha 53 anni ed è tornato a vivere nella sua Alessano, la città natale di uno degli alfieri della pace nel mondo, don Tonino Bello. Lei fa ancora le foto, che firmava come Kash e che alla Foreign Press Association di Londra, le valsero il Premio «Dialogue of culture» consegnatole dal batterista dei Pink Floyd, Nick Mason?
«Certo, ma di ben altro genere. Lavoro nel campo della moda e del cinema, e sto realizzando un progetto che coniuga la bellezza che c’è in questi due mondi, con la condizione di vita dei detenuti in attesa di giudizio per aver commesso piccoli reati».