Il caso

Lecce, la denuncia di una donna: «Mia madre dimenticata al pronto soccorso, andremo in Procura»

Maddalena Mongiò

«Lunghe attese e poca attenzione». La donna racconta l'odissea che sta vivendo da domenica scorsa

LECCE - «Appena le condizioni di mia madre si stabilizzerano presenteremo un esposto in Procura».

Sotto tiro il pronto soccorso di Lecce e a chiamarlo in causa è Angelica Longo figlia di una 76enne che da domenica sta vivendo, con la sua famiglia, un rapporto travagliato con gli operatori sanitari. «Non chiediamo assistenza e umanità solo per mia madre, – dice Longo – ma per tutte le persone che vanno in ospedale e vengono “dimenticate”». Uno sfogo amaro, quello della donna che lamenta in primo luogo mancanza di empatia, assenza di informazioni e scarsa attenzione verso le condizioni di sua madre. La Asl, riguardo all’accaduto precisa: «Lunedì, nel Pronto soccorso del Vito Fazzi, si è registrata un’affluenza significativa: 164 gli accessi complessivi nell’arco delle 24 ore. È opportuno ricordare che l’inappropriatezza di molti accessi acuisce i disagi organizzativi, ingolfa l’attività del reparto e contribuisce a dilatare i tempi di attesa. L’iperafflusso e il sovraffollamento nei Pronto soccorso sono questioni nazionali, non regionali né provinciali. Siamo intanto al lavoro per migliorare i flussi comunicativi tra pazienti e familiari, a cui cerchiamo di non far mai mancare informazioni esaustive. La direzione approfondirà il caso specifico segnalato. Alla mamma della signora Angelica auguriamo una buona convalescenza».

Dall’altra parte c’è il racconto dal sapore kafkiano di una vicenda resa più aspra dal peggioramento delle condizioni di salute della 76enne. Tutto ha inizio nel pomeriggio di domenica quando la donna manifesta un malessere che il 118 reputa doversi approfondire in pronto soccorso. «L’hanno dimessa domenica sera – racconta Angelica Longo – con il consiglio di ripetere il test Inr e di fare un’ecografia all’addome. Così lunedì mattina siamo andati al Centro emostasi della Cittadella della Salute dove mia madre è in cura da anni. Qui il responsabile ha esaminato le analisi fatte in pronto soccorso e ci hanno consigliata di riportarla subito al Dea perché con quei valori non doveva essere dimessa. Così abbiamo fatto, ma quando siamo tornati non volevano riprenderla visto che era stata dimessa la sera prima. Al triage ci hanno detto che avremmo dovuto aspettare ore prima che fosse visitata, poi dopo le nostre insistenze hanno deciso di prenderla in carico. Dal quel momento le informazioni sono cessate. Dalle 10 del mattino e fino alle 17:38 è stato fatto il solo prelievo del sangue (il secondo nell’arco di 24h, il primo aveva rilevato altri scompensi gestiti nella giornata di domenica). Alle 14 hanno accertato uno scompenso cardiaco e il medico del turno ha richiesto alcuni esami specifici. Mia madre non è autosufficiente, non riesce a parlare, e noi siamo chiusi fuori senza informazioni e se ci avviciniamo a chiedere qualcosa veniamo cacciati via in malo modo, con guardie giurate che ci urlano contro e personale medico e paramedico che ci tratta con superbia ed arroganza».

In questo clima li animi si sono scaldati al punto che nella serata di lunedì sono intervenute le forze dell’ordine per sedare gli animi. «Una dottoressa è arrivata a dirci “perché l’avete portata qui?”, dopo che ci era stato detto che i valori rilevati erano incompatibili con la vita e alle 20 che il cuore di mia madre funzionava al quindici percento e non si sapeva se poteva sopravvivere. Mi chiedo se questo poteva essere evitato con interventi più tempestivi».

E infine il rammarico: «Un po’ di empatia non guasterebbe, o qualche informazione in più dato che noi tutti qui fuori viviamo in uno stato d’ansia non indifferente. Aspettare tante ore per fare esami necessari, per capire dove ricoverare un paziente. Intanto il tempo passa e se si necessita di terapie si perde tempo. Se a mia madre succederà qualcosa di più grave, chi sarebbe il responsabile di tutto questo?» Un punto di domanda che pesa come una clava.

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