Accadde oggi

L’arresto choc di Enzo Tortora narrato dai giornali e dalle televisioni

Annabella De Robertis

Il carcere, le lacune nelle indagini e infine l’assoluzione per non aver commesso il fatto

«Per 3 ore Tortora sotto torchio»: è in prima pagina sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» il trafiletto sul caso giudiziario che il 24 giugno 1983 monopolizza l’attenzione dell’Italia. Esattamente una settimana prima il Paese si è, infatti, svegliato con la notizia dell’arresto di uno dei volti più popolari della Tv, accusato di associazione camorristica e traffico di droga. Nato a Genova nel 1928, Enzo Tortora è un giornalista e conduttore di programmi di successo, tra cui «Accendiamo la luce», con Raffaella Carrà, e, naturalmente, «Portobello», andato in onda su Raidue a partire dal 1977. All’apice della sua carriera, Tortora viene coinvolto in un colossale blitz anticamorra, un vero «atto di guerra contro la criminalità organizzata», si legge in quei giorni sul quotidiano: 800 mandati di cattura firmati dai magistrati della Procura di Napoli Felice Di Persia e Lucio Di Pietro, più di 500 arresti in tutta Italia. Anche in Puglia si contano 13 fermi, in Basilicata altri 9. Alle 4 e mezzo del mattino del 17 giugno 1983 i Carabinieri hanno bussato alla porta della stanza d’albergo in cui abitualmente Tortora alloggia a Roma.

L’accusa si basa in gran parte sulla testimonianza di un pentito, Pasquale Barra, il quale ha associato il nome del conduttore alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Dopo le prime ore di fermo, Tortora ha commentato: «Sono sbigottito. Si tratta di una colossale svista e uno dei più clamorosi errori giudiziari degli ultimi anni. Sono distrutto e senza volontà». Trascorre sette giorni nel carcere di Regina Coeli prima di essere ascoltato dai magistrati. «Davanti al carcere sembrava di essere tornati ai tempi del “calcio scommesse”. Mamme con i loro bambini, pensionati e sfaccendati si erano dati appuntamento in via della Lungara nella speranza di avere notizie di prima mano sulla sorte dell’uomo di Portobello», si legge sulla «Gazzetta» di quarant’anni fa. I sostituti procuratori Di Pietro e Di Persia sono dovuti entrare nel carcere da un accesso laterale per riuscire a evitare i giornalisti e fotoreporter che assediano l’edificio: l’interrogatorio dura 3 ore, ma all’uscita i difensori di Tortora non rispondono alle domande dei cronisti appellandosi al segreto istruttorio. Emerge solo che il presentatore avrebbe definito le accuse nei suoi confronti «delle assurdità». «Ma perché i due pentiti si sarebbero accaniti contro di lui, inserendo il suo nome nell’elenco di oltre mille persone aderenti all’organizzazione di Cutolo?» – ci si interroga sul quotidiano ed è la domanda che si pone l’intero Paese in quei giorni – «Lo stesso Tortora ha detto di non sapersi spiegare la ragione». Intanto, l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha già provveduto a sospenderlo dall’albo e dell’esercizio della professione. Il giorno dopo sulla «Gazzetta» compare una foto di Tortora all’interno del carcere romano. Il conduttore dichiara l’intenzione di dimostrare con chiarezza la sua innocenza: «non voglio essere scarcerato per insufficienza di prove o come un camorristello qualunque e nemmeno per ragioni di salute». Si scopre, inoltre, che i magistrati sono entrati in possesso della corrispondenza di Tortora con un detenuto camorrista, Domenico Barbaro. In alcune di queste lettere il giornalista avrebbe scritto di «non aver ricevuto la roba». «Gli avvocati sosterrebbero che si tratta di centrini inviati per essere presentati a Portobello. Ma i magistrati sono più propensi a credere che per “roba” si intenda la droga». Si scoprirà, invece, che si trattava proprio di centrini prodotti in carcere dal camorrista: al rifiuto di Tortora di mostrarli in tv, Barbaro si sarebbe accanito contro il presentatore inserendolo nella famosa lista degli affiliati alla Nco.

Tortora trascorrerà altri sette mesi in carcere e poi gli verranno concessi i domiciliari: nel 1985, nonostante gravi lacune nelle indagini, verrà condannato a dieci anni e al pagamento di una multa di 50 milioni di lire. In appello, il castello di false accuse comincerà finalmente a crollare: il 15 settembre del 1986 Enzo Tortora sarà assolto dall’accusa di associazione a delinquere di tipo mafioso per non aver commesso il fatto e da quella di spaccio di droga perché il fatto non sussiste.

Privacy Policy Cookie Policy