Il parere

Ambrosi: «È tempo di dire stop all’assistenzialismo c’è bisogno di un reddito di formazione»

Alessandro Ambrosi*

Subito un dato: sono oltre 560mila le opportunità di lavoro offerte dalle imprese italiane a giugno 2021, che salgono a quasi 1,3 milioni avendo come orizzonte previsionale l’intero trimestre giugno-agosto. È quanto mostra il «Bollettino mensile del Sistema informativo Excelsior», realizzato da Unioncamere e Anpal. Potremmo già festeggiare la voglia di ripresa post Covid delle nostre imprese se lo stesso Bollettino non mettesse in evidenza un altro dato meno entusiasmante: la quota di assunzioni, per cui le imprese dichiarano difficoltà di reperimento, è pari al 31%. Per farla breve le previsioni dicono che c’è e ci sarà il lavoro, ma non ci sono i lavoratori e in particolare figure professionali più qualificate: dirigenti, operai specializzati, tecnici, professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione. Che è quanto cercano le imprese da sempre e soprattutto in questa fase. Neanche questa è una novità. Il nostro Paese, e il Sud in particolare, fa da tempo i conti con il cosiddetto paradosso della disoccupazione all’inverso. Con l’aggravante che nel 2018 la difficoltà di reperimento era del 24,3% e quest’anno del 31% e quindi il problema si aggrava. Da portare a mente un esempio «di scuola» dalle nostre parti: in pieno boom del distretto del salotto mancavano i tagliatori di pelli. Oggi come ieri la causa principale di questa «assurdità» è l’assenza di una sistematica attività prima di orientamento agli studi in base alle propensioni o talenti dei singoli e poi di accompagnamento al lavoro dei giovani nella fase finale degli studi. Con questi presupposti il fenomeno dei Neet, circa due milioni in Italia - persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione, molti di loro «assistiti» dal reddito di cittadinanza o provvedimenti affini - è destinato ad aumentare. E con esso l’assistenzialismo. Alvin E. Roth, Nobel per l’Economia nel 2012, ci mostra come tutti i mercati siano “migliorabili”e ciò vale anche per i “mercati del lavoro”. Per farlo occorrono “nuove organizzazioni per la transizione” che realizzino politiche attive di formazione, d’incontro fra domanda e offerta reale. Allo stato attuale non esistono organizzazioni di supporto pubblico che creino stabilmente e concretamente incontro con la domanda specializzata delle imprese, specie piccole e medie, e gli aspiranti lavoratori. I giovani (diplomati, laureati) si trovano sommersi da valanghe di informazioni “social/on-line” ma, di fatto, nel vuoto di un accompagnamento organizzato e professionale verso il primo lavoro. Di fronte all’evidenza del fatto che i Centri per l’Impiego non si sono dimostrati all’altezza del compito e i navigators hanno navigato poco quanto niente, se invece i servizi di collocamento gestiti dal privato hanno fatto meglio, perché non riorganizzare meglio questa filiera del lavoro, unendo forze e competenze? Affinché la formazione possa davvero diventare un investimento delle famiglie sull’avvenire certo dei propri figli, si possa assicurare un’occupazione ai meno occupabili e non premiare i più restii a lavorare? E dunque: è opportuno che le politiche attive del lavoro, da diversi anni invocate da vari governi, si realizzino ancora attraverso il reddito di cittadinanza, oppure è tempo di introdurre meccanismi più efficaci e meno costosi? Quest’anno nelle campagne del sud est barese non c’era manodopera, richiestissima, per la raccolta delle ciliegie. Che non è un lavoro ad alta specializzazione come quello dei tagliatori di pelli. Fenomeno tanto più assurdo in una regione in cui la disoccupazione è del 14,3% e giovanile del 45%. E nonostante stiamo uscendo da una crisi pandemica molto dura, la stessa cosa sta accadendo per molti lavori collegati al turismo. Non è difficile comprendere perché tutto questo sia accaduto e continuerà ad accadere. Mi rendo conto che il reddito di cittadinanza è questione delicata, ma sarebbe auspicabile che i decisori politici traccino fin d’ora un programma di uscita graduale dalle misure di emergenza da applicare quando l’epidemia avrà finito il suo corso. Altra questione aperta è quella del credito alle imprese che nelle grandi difficoltà del lockdown si sono sicuramente indebitate più del solito, grazie alla garanzia statale sui prestiti. Come si è previsto di uscire da questa situazione? O è presumibile che andrà a finire come sempre e cioè che le banche non concederanno nuovo credito non tenendo conto della eccezionalità della situazione? Se il problema non sarà risolto sarà facile parlare anche in questo caso di eccesso di assistenzialismo. Ma bisogna stare sui campi di battaglia – e gli imprenditori lo sono stati e lo sono ancora –fra morti e feriti per comprendere fino in fondo il dramma, anche economico oltre che sanitario, del Covid- 19. Puntare alla formazione di una cittadinanza professionalmente attiva e non passiva, in cui terminato il percorso formativo ci sia un sicuro inserimento lavorativo, è il miglior investimento che lo Stato possa fare sulle risorse umane non gravando sui conti pubblici. Abbandoniamo il reddito di cittadinanza e indirizziamo tutti i nostri sforzi al reddito di formazione. Un programma di Governo di uscita dalla crisi è quello di cui abbiamo bisogno tutti. Nessuno deve restare indietro. Crisi eccezionali vanno trattate con provvedimenti eccezionali.

*Presidente Camera di Commercio di Bari

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