L'intervista

«Sì al Ponte sullo Stretto ma si faccia tutto il resto: basta liti da bar, serve una strategia per il Sud»

leonardo petrocelli

A parlare è Adriano Giannola, presidente Svimez. «Per crescere il Mezzogiorno ha bisogno di un progetto di sistema. E di investimenti di sistema»

«D’accordo, costerà un’iradiddio, ci saranno un sacco di problemi e non è forse quello il progetto giusto. Ma il Ponte sullo Stretto serve, eccome se serve, purché sia inserito all’interno di un ragionamento di sistema. Noi non siamo certo contrari». Nella cagnara da bar dello sport che in Italia seppellisce ogni discussione, il ragionamento di Adriano Giannola - economista marchigiano e presidente della Svimez (Associazione per lo Sviluppo dell’Industria del Mezzogiorno) - rischia di spiazzare parecchie anime militanti, di quelle ben disposte a ridurre la questione del Ponte, così come tutto il resto, a un pro o contro Salvini, un pro o contro il Governo. E, invece, quando si parla di infrastrutture strategiche, soprattutto in riferimento al Mezzogiorno, si impone un approccio diverso. O, almeno, così dovrebbe essere. «Ricordo quando due anni fa andai a Catania a parlare del Ponte con l’allora governatore, e oggi ministro, Nello Musumeci - racconta Giannola -. Eravamo all’università, c’erano persone degnissime che però, appena si toccò l’argomento, iniziarono a saltare e urlare contro. Così non si va da nessuna parte».

Presidente Giannola, da dove cominciamo?

«Da una premessa molto semplice: per crescere il Mezzogiorno ha bisogno di un progetto di sistema. E di investimenti di sistema. Il Ponte sullo Stretto, al di là delle basse polemiche, rimane un punto fondamentale del discorso complessivo. Solo che così rischia di diventare una cattedrale nel deserto perché nessuno osa abbozzare un ragionamento più ampio».

Allora facciamolo noi un ragionamento più ampio: qual è il punto?

«Il Mezzogiorno d’Italia è detentore di una rendita posizionale che non sfrutta in nessun modo. La Sicilia è di fronte al Canale di Suez e da lì potrebbe naturalmente intercettare tutto il traffico verso il continente. Che invece prende altre strade».

Cosa servirebbe?

«Potenziare i porti e i retroporti, per cominciare. Augusta, Catania. E da lì attivare le autostrade del mare verso Nord con tappe in ogni scalo. Poi un aeroporto internazionale, non a Roma dove non serve a nulla, ma nel cuore della Sicilia. E, appunto, il Ponte da dove far transitare le persone ma soprattutto le merci. In questo modo torneremmo ad essere il centro dei traffici principali, magari combinando il potenziamento infrastrutturale con delle vere Zone economiche speciali, non quella ‘unica’ realizzata dal governo che non ha nulla a che vedere con il significato che nel mondo si dà all’espressione Zes».

Se il nodo è l’Africa, dal governo le risponderebbero che c’è il Piano Mattei.

«È poco più di un segnale, una pagliuzza che almeno ci rivela che hanno inquadrato l’Africa come ‘continente del futuro’. È già qualcosa. Ma è una prospettiva debolissima, servirebbe un’azione molto più potente».

Per volare così alto sarebbe stato necessario un uso diverso del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

«È quello che abbiamo scritto anni fa in un documento, Un progetto di sistema per il Sud in Italia e per l’Italia in Europa, consegnato, tra gli altri, a Mattarella e Draghi, senza mai avere risposta. In compenso il Pnrr è stato usato per rifare le piazze dei borghi senza però costruire le strade per arrivarci. È tutto sfilacciato, senza analisi alla base».

Il Mezzogiorno cresce, però. Come se lo spiega?

«Certo che cresce. Il Pnrr ha comunque iniettato 80 miliardi in 4 anni, quando prima ne arrivavano meno di 10. Ma quando finirà? Il contraccolpo non sarà graduale ma violento».

La vera emergenza sono le aree interne. Cosa si può fare?

«Innanzitutto smetterla di pensare solo a come usare la medicina telematica per sopperire alla chiusura degli ospedali. Va benissimo, ma è un de profundis».

E dunque? Un esempio concreto?

«La Napoli-Bari: doveva essere pronta nel 2026, si parla del 2030. Sarebbe l’unico modo per resuscitare il Sannio, l’Irpinia e le Murge, terre bellissime, produttive, ma scollegate. Una dorsale con dodici stazioni e strade che risalgono fino all’ultimo paesino rimetterebbero tutto in piedi. Ma nessuno ne parla. Si preferisce perdere tempo e soldi pensando al nucleare nei prossimi 15 anni quando al Sud abbiamo 80 dighe malfunzionanti che, una volta manutenute, potrebbero far decollare l’idroelettrico. Manca, come sempre, la visione».

Torniamo al Ponte. Le obiezioni sono in gran parte di natura tecnica: costi e sicurezza su tutte.

«Vero. Da tempo autorevoli commissioni hanno giudicato meno avventuroso, meno lungo e meno costoso il progetto a tre campate anziché a campata unica. Sarà un’iradiddio non c’è dubbio. Però, se c’è il via libera si proceda. Il problema è sempre quello: ci vorranno dieci anni, nel frattempo che facciamo? Il governo parla solo del Ponte, cioè dell’episodio isolato, senza collegarlo a nulla, mentre nel frattempo fa rientrare dalla finestra l’autonomia cacciata dalla porta. E gli altri strepitano in modo ideologico, non costruttivo. Il quadro è desolante, l’irrazionalità regna sovrana a destra come a sinistra. Non mi pare che il tema del progetto italiano sia chiaro a qualcuno».

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