romanzo quirinale

Pino Pisicchio: «Sergio Mattarella, il presidente della solidarietà»

leonardo petrocelli

Nuovo volume del giurista e saggista già parlamentare, dedicato all’analisi dei discorsi del Capo dello Stato: dal diritto al lavoro alle sorti del Mezzogiorno d’Italia

«Il presidente della solidarietà». Dopo aver scandagliato otto discorsi di Capodanno e i due giuramenti d’inizio mandato, è questa la conclusione a cui è giunto Pino Pisicchio, giurista, saggista e già parlamentare di estrazione morotea. Sergio Mattarella e la solidarietà, dunque. Un legame inscindibile riattraversato da Pisicchio alla luce di vicende e categorie politiche nel recente volume La solidarietà come dovere costituzionale nei messaggi di Mattarella, in libreria per i tipi di Cacucci editore.

Pino Pisicchio, da dove cominciamo?

«Da una premessa: ogni Presidente della Repubblica esercita la propria funzione con un elemento personale molto forte».

Andiamo coi nomi, allora: Sandro Pertini.

«È stato il proto-comunicatore, ha scoperto la comunicazione televisiva e non l’ha più abbandonata».

Francesco Cossiga.

«Lui era il “picconatore”. E anche il rinnovatore con i continui inviti a fare le riforme».

Giorgio Napolitano.

«L’“interventore”, senza dubbio, anche alla luce del contesto complesso in cui si è mosso».

Infine, Mattarella.

«Se dovessimo individuare un’espressione per ricordare l’esperienza mattarelliana ci dovremmo riferire di certo alla solidarietà».

In verità, la solidarietà sembra un riferimento da «anime belle». Cosa la trasforma in un «metaprincipio»?

«Solidarietà e uguaglianza sono il cardine degli articoli 2 e 3 della Carta, la cosiddetta “Costituzione bonsai”. Furono inseriti a larghissima maggioranza ma su iniziativa di tre personaggi: Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti e Aldo Moro, i “professorini” di area cattolico-democratica».

Quale fu l’elemento caratterizzante dell’operazione?

«L’ingresso, sulla scia degli insegnamenti di Maritain e Mounier, di un elemento caratterizzante non presente nelle costituzioni liberali in cui tutti gli uomini sono uguali, certo, ma la faccenda finisce lì. La nostra Carta fa un passo oltre, impone uno sforzo proattivo per realizzare l’uguaglianza nei fatti. Tradotto: se l’accesso all’istruzione costa caro devi predisporre le borse di studio».

Incrociamo la spinta alla solidarietà con un altro tema caro al Presidente: i giovani.

«I giovani sono la proiezione del Paese verso nuovi obiettivi e, in generale, verso il futuro. Mattarella li cita continuamente nei suoi discorsi, spesso legando il riferimento al tema del lavoro. E sempre, comunque, in una logica di solidarietà intergenerazionale».

Ecco, il diritto al lavoro. Tema scottante soprattutto al Sud.

«C’è una vicenda interessante da ricordare. Il diritto al lavoro è, in realtà, una evoluzione del diritto alla felicità caro agli americani. Al momento di stilare la Dichiarazione di Indipendenza, Thomas Jefferson chiese a Benjamin Franklin di sottoporre il testo a un giudizio esterno».

Il giudizio di chi?

«Degli illuministi italiani che, poi, erano napoletani ma anche pugliesi. Fu in particolare Gaetano Filangeri a suggerire di eliminare il passaggio sulla proprietà privata ed inserire quello, celeberrimo, sul diritto alla ricerca della felicità. Un diritto, dunque, ispirato dal nostro Sud».

Torniamo a Mattarella. Qualcuno lo ha accusato di tirar fuori il decisionismo solo quando si è trattato di bloccare la nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia, nel 2018, tranquillizzando così un’Ue verso la quale è sempre stato morbido.

«L’Italia deve adempiere agli obblighi internazionali messi a repentaglio, in quel caso, da una personalità favorevole all’uscita dall’Ue. Mattarella si è mosso nell’ambito delle sue prerogative. Quanto ad eventuali esternazioni politiche non è quello il suo ruolo ma in alcuni casi si è espresso chiaramente. Ad esempio nel caso della Convenzione di Dublino di cui più volte ha auspicato la revisione».

A Mattarella, come Napolitano, è toccato il secondo mandato. È la politica a essere troppo litigiosa o non ci sono personalità all’altezza?

«Viviamo in una cultura politica divisiva. Lo schema binario imposto dall’algoritmo dello smartphone è entrato nei cuori di tutti. Si aggrega la gente solo contro il nemico secondo la teoria dei “gruppi minimi”. Ecco, in queste condizioni non è semplice trovare un nome indicato dalla maggioranza e condiviso anche da altri. E poi c’è un altro elemento».

Cioè?

«I presidenti della Repubblica sono spesso ex presidenti della Camera. Guardiamo alcuni nomi recenti: Bertinotti, Fini, Boldrini. Tutti, appunto, divisivi».

Infine, cosa pensa della riforma che il Governo Meloni ha in cantiere? Il premierato indebolirebbe il Colle?

«Sono contrario. È una cosa piccola e sbagliata perché andrebbe a creare una sorta di consolato squilibrato con un capo del Governo eletto dal popolo e un capo dello Stato posto sul Colle da grandi elettori. Come finirebbe? Meglio che ognuno faccia bene il suo mestiere. Oltretutto, la via del premierato è stata già percorsa in Israele. Ed è stato un fallimento».

Chiudiamo da dove siamo partiti: la cultura cattolico-democratica. Come se la passa?

«Maluccio, direi. È un filone fondativo della nostro Costituzione che però non trova più interpreti in una politica che ha rimosso le aspirazioni e premia i partiti pigliatutto. Cosa curiosissima, sopravvive invece una corsa forsennata a rifare la Democrazia cristiana, una specie di “ossessione del centro” destinata a fallire. Non è più il tempo. La Dc è come la Settimana Enigmistica con i suoi tanti tentativi di imitazione mai riusciti».

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