Il caso
Bergamo, nell’inchiesta Covid anche due pugliesi
Maraglino (Cts) e il primario Marzulli tra i 18 indagati. L’accusa: non hanno vigilato le carte
BARI - La Procura di Roma dovrà stabilire se le carte inviate da Bergamo sulle presunte responsabilità nei primi giorni della pandemia meritino un prosieguo in sede penale. E tra le 18 persone cui sono contestate, a vario titolo, le accuse di epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo e rifiuto di atti di ufficio ci sono anche due pugliesi.
Si tratta di Francesco Paolo Maraglino, 61 anni, di Taranto, dirigente del ministero della Salute e componente del Comitato tecnico scientifico, e Giuseppe Marzulli, 65 anni, di Taranto, responsabile della gestione delle emergenze sanitarie degli ospedali di Alzano Lombardo e Gazzaniga. A Maraglino è contestato il mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale, oltre che di aver comunicato dati falsi all’Oms. Per Marzulli (la cui posizione è rimasta a Bergamo) l’accusa è invece di non aver vigilato sulla disponibilità di dispositivi di protezione, causando il contagio di almeno 35 operatori sanitari e un impiegato amministrativo, alcuni dei quali deceduti.
L’impostazione accusatoria che nasce dalle indagini della Finanza dovrà passare al vaglio di un gup, e non è da escludere che alcuni degli indagati possano chiedere l’interrogatorio. Ma dalle carte emergono una serie di storie. Compresa una lettera di Alberto Zoli, dg dell’Areu Lombardia (l’Agenzia per l’emergenza): quando «entravo» nelle «stanze del Ministero della Salute» per le riunioni del Cts e per la «stesura» del Piano Covid, scrive il dirigente, «sottoscrivevo un documento che mi vincolava alla riservatezza». Il 19 febbraio 2020 «ho firmato ben due volte il vincolo», ma «ho sempre trasferito - si legge - all’Unita di crisi» della Lombardia «tutto quanto potevo sapere, immaginare o ipotizzare».
A verbale davanti ai pm, Zoli ha chiarito che «pur non avendo mai esibito documenti» di quel piano Covid top secret, «ai componenti dell’Unità di crisi di Regione Lombardia» riferì sempre «i contenuti di quello che si doveva fare». La bozza del piano fu «completata il 20 febbraio e noi abbiamo avuto il primo caso il 20 sera, per cui siamo stati colti di sorpresa». Danilo Cereda, tecnico che faceva parte dell’Unità di crisi della Regione Lombardia, ha detto che «tra noi tecnici vi era unanimità nel considerare la zona rossa necessaria per mitigare l’epidemia». Lo stesso presidente Fontana, ha riferito Zoli, «era convinto della istituzione della zona rossa in senso lato».
«Mandai una mail con la quale chiedevo ulteriori dati al fine di fornire al decisore politico sempre più dati. In particolare, scrivevo: “Urge dare evidenza della situazione, ci sono forti spinte a dire che non è nulla di che”», ha raccontato Cereda. E in una riunione anche con l’ex ministro Speranza, ha messo a verbale il tecnico, Vittorio Demicheli, direttore dell’Ats Milano, evidenziò «con una slide che le zone rosse arrivavano in ritardo». Il quadro di quei giorni era reso più drammatico dalla sensazione di impreparazione, che Andrea Crisanti ha definito «improvvisazione». E così Livia Trezzi, all’epoca responsabile della sorveglianza malattie infettive dell’Ats di Bergamo, ha chiarito come andò in difficoltà il meccanismo di «raccolta dati relativa al contact tracing e di inchiesta epidemiologica». Angelo Giupponi, capo del 118 a Bergamo, propose di individuare alcuni ospedali da «riservare» solo a pazienti Covid e Aida Andreassi, medico della direzione generale Welfare lombardo, gli avrebbe risposto: «Non dormiamo da tre giorni, non abbiamo voglia di leggere le tue cazz...».