MEZZOGIORNO DI FOCUS
Beppe Vacca: «Altro che autonomia le regioni sono finite»
Il professore: «Non è il più «sentito» livello di governo. L’astensione lo dimostra»
Il voto in Lombardia e Lazio che sancisce «la fine» delle regioni, almeno in termini di interesse collettivo, proprio nel momento in cui la propaganda autonomista le incorona quale migliore più sentito livello di governo. È in questo cortocircuito il cuore della riflessione di Beppe Vacca, politologo e già presidente (fino al 2016) della Fondazione Istituto Gramsci, ieri ospite della redazione della «Gazzetta» per una analisi degli ultimi accadimenti.
Professor Vacca, andiamo con ordine: da dove viene il pensiero autonomista?
«Ha diverse matrici. Il riferimento più ovvio è Carlo Cattaneo, un pensatore anacronistico rispetto al processo “fattuale” del Risorgimento italiano e con, in vista, un modello non applicabile, cioè quello Svizzero. Ma questo può riguardare alcune fasce di intellettuali settentrionali. Non c’entra con la Storia».
E cosa c’entra con la Storia?
«Quello che succede in Italia e in Europa dopo il 1989. Una parte della Germania, quella bavarese, che pure aveva avuto un ruolo nello smembramento della Jugoslavia, incontra un processo di riarticolazione territoriale che tocca il Lombardo-Veneto».
Da questo «incontro» si origina tutto?
«Dopo il falò della repubblica dei partiti, dal 1992 in poi, la Lega diventa una interlocutrice. E si fa largo una domanda: quale Italia nell’Europa del 1992? In realtà la domanda sarebbe un’altra».
E cioè?
«Ci sarebbe stato da chiedersi quale Europa. E invece no. L’Italia assume un postura, per così dire, retroversa. Invece di pensare alla nuova costruzione continentale e a comprendere come il Paese possa reggere la competizione globale, ci si interroga sulla massima autonomia del cittadino sovrano. Facciamola ancora più semplice, guardando all’oggi: ci sono i temi globali della guerra, dell’ambiente, delle crisi economiche e tu cosa proponi? Ognuno per sé? Un assurdo».
E tuttavia, professore, al netto del ruolo della Lega, la sinistra rivendica il proprio contributo sui temi del regionalismo e dell’autonomia. Stefano Bonaccini addirittura dice: «È una cosa di sinistra, l’abbiamo inventata noi».
«Noi chi? Forse intende “l’abbiamo inventata noi padani”. Che sia una cosa di sinistra è tutto da dimostrare. D’altra parte, la prima idea di “Padania” è del bolognese Guido Fanti (sindaco e parlamentare del Pci, ndr), un altro che guardava al federalismo invece di chiedersi come la nazione sta nel mondo».
Quindi è una questione territoriale, non politica?
«Bonaccini parte dal presupposto che il miglior modello italiano sia l’Emilia-Romagna. Non è così, è Milano. Poteva essere il Sud, Napoli era il punto più alto fra le metropoli europee, ma l’unità d’Italia l’hanno fatta i piemontesi. Ma al di là di questo resta il punto: davvero vogliamo venti regioni con venti leggi elettorali diverse?».
A questo proposito e sempre in chiave «autonomista» come possiamo leggere il voto in Lombardia e Lazio?
«In modo molto secco: è la fine delle regioni».
Addirittura?
«Ci hanno raccontato che si tratta del livello di Stato più vicino ai cittadini, quello preferibile e più sentito. E poi a votare non ci va quasi nessuno. Il punto è che non è vero. Il livello più vicino ai cittadini è quello comunale. Ma anche qui non serve a nulla constatarlo se poi tutto si riduce a contese di cortile su una visione minimalista».
Il Partito democratico come esce dal voto?
«Sconfitto ma consapevole di conservare uno zoccolo duro che, nonostante tutte le sventure capitate, è ancora lì».
Diciamo del 20%?
«Direi 25%. È sempre lo stesso dagli Anni Settanta. Il problema è come utilizzarlo».
Ecco, come dovrebbero utilizzarlo?
«Misurandosi con i temi fondamentali. Guerra e pace, innanzitutto. Ma anche l’architettura dell’Italia».
Si riferisce al presidenzialismo?
«Il Pd, come l’Ulivo prima, nasce proprio in riferimento al problema complesso delle riforme istituzionali. La Meloni un programma ce l’ha. La sinistra cosa le dice?».
Le dice che è fascista...
«Appunto, una sciocchezza. E finisce pure per farle un favore. In realtà con l’attuale legislatura può emergere una destra più consistente di quella vista finora. Ha una visione complessiva che obbedisce a una impostazione atlantica: da un lato il presidenzialismo all’americana, dall’altro il posizionamento con la Nato».
Quindi chi accusava la Meloni di voler portare l’Italia fuori dal «tracciato» sbagliava?
«Non c’è dubbio. Sarebbe stata sufficiente qualche lettura. Nel 1995, Pinuccio Tatarella, allora vicepremier del Governo Berlusconi, mi disse chiaramente che gli americani non si erano mai fidati del tutto della Dc e che il Movimento sociale era stato creato per questo, per offrire un appiglio sicuro. Tanto che poi aggiunse: la nostra storia inizia adesso».
Però profonde venature anti-americane hanno attraversato la destra così come il Pd di Enrico Letta sembrava più filo-Nato della Nato stessa.
«Si dicono tante cose. Di fatto il Partito democratico non ha affrontato nessuna discussione sui temi cardine. E il punto resta questo».
C’è anche un nodo dei nomi. Da Emiliano a De Luca, domina anche al Sud il modello del «partito regionale di massa» che però non aiuta la discussione nazionale...
«Il serbatoio del Pd resta ricco ma non saprei dire cosa possa venirne fuori. Non ci sono più nemmeno i D’Alema, i Veltroni, i Bersani. È il partito che più di altri logora le sue leadership. Oggi c’è una campagna all’americana ridotta a spot con un finale aperto al voto dei non iscritti, cioè al contributo delle truppe cammellate. Con tutto quello che comporta. Sono ancora iscritto al Pd, parteciperò al congresso ma non al voto del 26 febbraio».